Rosmer e Rebekka: orrore senza speranza di due anime dannate. Lugubri fantasmi d’un Ibsen alla Ingmar Bergman

MILANO, giovedì 25 gennaio (di Paolo A. Paganini) Il pastore Rosmer è un quarantenne cresciuto in un’antica famiglia di ecclesiastici e militari. La vita, a sua volta, non poteva che essere austera, severa, rigorosa, metodica, conservatrice, senza gioia, pur con la civile ambizione, dopo aver abbandonato il ministero ecclesiastico, di illuminare il popolo contro il serpeggiante spirito di rivolta e d’ignoranza d’una nuova epoca. Eppure, ingenuo, idealista, illuso di diventare portatore di luce, là, dove la sua famiglia si era dedicata soltanto a una cupa esistenza di tristezze. Sua moglie, disperata, o depressa, o delusa o tradita che fosse, si suicidò annegandosi nella gora d’un mulino. L’infelice era assistita da Rebekka, una trentenne fautrice del libero pensiero e, in segreto, “selvaggiamente” innamorata di Rosmer. Entrambi, ora, Rebekka e Rosmer sono due  infelici, “privati del senso d’innocenza che fa bella la vita”. In particolare Rebekka è lacerata dai sensi di colpa. È stata lei a indurre al suicidio la moglie di Rosmer, considerata un ostacolo alla libertà e alla felicità del marito. Ma è anche sgomentga dal sospetto di aver commesso un incesto con il padrino che invece era suo padre (la figura di Rebekka interessò anche Freud). Non resse tuttavia all’angoscia di quel “suo” uomo, che cercava invano di capire e risolvere l’enigma della morte della moglie. Gli rivelò allora di essere stata lei la causa di quel suicidio, per potersi poi unire a lui in un amore non più “selvaggio” ma serenamente accettato. Ma la rivelazione, per Rosmer e Rebekka, sarà il fallimento di ogni ideale, la perdita di ogni fede. Non rimane che l’espiazione. La gora del mulino attende.
Eliminando gli altri personaggi di contorno del dramma (1886), “Rosmershom”, di Henrik Ibsen, con il sottotitolo “Il gioco della confessione”, è stato un allestimento dell’indimenticato Massimo Castri nel 1980. Ora, al Franco Parenti (dove già era stato nell’85, con De Francovich, Ubaldi, De Ceresa, regia Sciaccaluga) è ripreso da Luca Micheletti (anche regia), che, con Federica Fracassi, ha messo in scena a due voci questo angosciante monodramma dell’orrore. Una camera di tortura, dove non aleggia un sorriso, “nemmeno i bambini qui sanno sorridere”, dove tutto è predisposto per il micidiale ingranaggio di una dolorosa espiazione senza redenzione, dove “quel senso dell’innocenza che faceva bella la vita” non è più nemmeno un ricordo, schiacciato ormai da lugubri fantasmi di morte.
Ebbene, tutto quello che dovevamo raccontare più sopra, è già avvenuto come antefatto, e i due infelici amanti, già in un loro macabro sudario, in un serrato dialogo, crudo, talvolta dissociato, nell’affannoso avvicinamento della verità, come in un tremendo thriller, preparano, in un crescendo di un’ora e dieci senza intervallo, il climax d’una tragedia annunciata. Lui (Micheletti) schiacciato dai fallimenti di un’anima a brandelli, invano cercando riscatto e conoscenza; lei (la Fracassi) frantumata nel crollo d’illusioni e speranze, oscura erinni di una inarrestabile condanna di morte.
Opera tardiva di Ibsen, quando erano ormai cadute tante certezze di redenzione, di elevazione del popolo, in un mondo di frantumati valori, di una società in crisi, di una borghesia svuotata di ideali, crollate le radiose attese d’un trionfante illuminismo, il dramma descrive le ombre tragiche e mortali di una decadente famiglia borghese, in un’epoca in cui si stavano affermando le novelle tecnologie, le esaltanti promesse della rivoluzione industriale. Non è pertanto solo il dramma di una perdizione di anime, specchio e documento di un’epoca passata, ma anche involontaria visione d’un eterno presente che ci dice qualcosa.
Entrando nella sala del Franco Parenti, dove si svolge” Rosmersholm”, si ha subito la sconvolgente sensazione d’un luogo di morte. Su due tavoli in centro, tra candele e luci mortuarie, sono adagiati i corpi degli sciagurati amanti. Dal torpore della loro rigidità, come in un film di Ingmar Bergman, si sveglieranno, si leveranno, comincerà “il gioco della confessione”. Tragico processo alla ricerca della verità. Feroce frugare di anime nel torbido dei loro pensieri.
L’azione si svolge a pochi centimetri dal pubblico, che segue in tesa partecipazione, ammutolito dallo stupore, il transfert dei due attori in tutt’uno con la platea, immedesimati nel loro spasimo borghese, nel decoro dei loro costumi d’epoca, lei in abito lungo, livido come un grumo di sangue, lui in una funerea redingote.
Applausi liberatori alla fine, nell’apprezzamento di uno spettacolo che ha coinvolto più per la bellezza contestuale e per l’ideazione drammaturgica che non per una reale partecipazione emotiva.
Ma, d’altra parte, non si trattava mica di Giulietta e Romeo.