(di Andrea Bisicchia) Non si può certo parlare di teatro post-testoriano (chi gli somiglia linguisticamente è proprio un napoletano, Mimmo Borrelli), mentre è possibile parlare di un teatro post-eduardiano che vede in Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Manlio Santanelli, Mimmo Borrelli, non tanto i diretti continuatori, quanto gli apostati, gli anti eduardiani, sia per una visione più recente e più drammatica di Napoli, sia per l’uso di un linguaggio che attinge a quello di una napoletanità senza confini.
L’editore Kairós fa bene, quindi, a pubblicare due libri che facciano capo ad autori iconoclasti come Ruccello (1956-1986) e Moscato.
Ruccello è passato come una meteora, benché in soli 30 anni abbia dato precise indicazioni per una drammaturgia che sappia rinnovarsi partendo dal basso, senza limiti etici e con una visione diversa, sia dei rioni, che dei quartieri, che dei bassi napoletani. Non per nulla, il suo primo testo ha per titolo “Il rione” che fa pensare al “Rione Sanità” di Eduardo che recentemente Martone (visto al Piccolo Teatro) ha inserito in una socialità camorristica, dove il potere conta più del buon senso, quando si è raggiunta una certa età e quando ci si è accorti che, con la violenza, non si può costruire una società migliore.
La violenza a cui fa riferimento Ruccello, è quella dei diseredati degli anni Ottanta, dei femminielli, non più, quindi, quella della Napoli postbellica. Nei rioni di Ruccello vi troviamo ben altro, non solo il degrado sociale, economico, ma anche morale, essendo stati trasformati in veri e propri covi di mali oscuri. La città di Napoli, negli anni Ottanta, vive in uno stato di incertezza e smarrimento, proprio come i personaggi di Ruccello, sempre più soli, incapaci di adattarsi alle trasformazioni, come Nannarella che vede fallire tutti i suoi tentativi di donna onesta e che, alla fine, non crede più neanche in Dio che l’ha abbandonata, come ha abbandonato Jennifer, protagonista di uno dei capolavori di Ruccello, portato in scena più volte, dopo la scomparsa dell’autore, da Geppy Gleijeses e Arturo Cirillo.
Andrea Jelardi, nel volume “Annibale Ruccello. Una vita troppo breve, una vita per il teatro”, Kairós editore, con prefazione di Isa Danieli, ha inserito l’attività professionale di Ruccello in un contesto storico ben preciso, ricostruendone le origini, che vanno dall’esperienza con la compagnia dei Dodici Pozzi, un collettivo di 40 ragazzi con i quali andava alla ricerca di nuovi contenuti, oltre che di una nuova idea di fare teatro, a quella con De Simone, in particolare della Gatta Cenerentola, o ancora al lavoro sui classici, come “L’asino d’oro” di Apuleio, o “I gioielli indiscreti” di Diderot. Jelardi si attarda maggiormente sull’analisi dei testi, in particolare di “Le cinque rose di Jennifer” e “Ferdinando”, il testo più noto e più rappresentato, non solo in Italia. Propone anche dei parallelismi con Eduardo e Viviani, riconoscendo le differenze di stile e di linguaggio. Il volume è corredato da una iconografia e da una cronologia essenziale.
Andrea Jelardi, “Annibale Ruccello. Una vita troppo breve, una vita per il teatro”, Kairós Edizioni 2016, pp 214, € 18