MILANO, venerdì 30 gennaio ●
(di Paolo A. Paganini) Luca Ronconi non è nuovo al mondo dell’economia, del lavoro, della finanza, senza con ciò avere mai avuto il tono professorale di voler dare lezioni di scienza bancaria o di alta economia. Semmai, scavando più sotto, cercando valori nascosti, poetici o sociali, Ronconi ha sempre rivolto lo sguardo alle ragioni etiche del’economia, quelle che hanno in qualche modo modificato la società, attraverso, appunto, i valori del lavoro e della finanza. Così è stato, per esempio, in “Infinities” (cinque sequenze sul paradosso della scienza), oppure in “Lo specchio del diavolo” (sull’evoluzione agricola, industriale, economica). Ma, anche qui, la tentazione della lezione è superata dal dialogo, che si fa discussione che diventa litigio che diventa teatro.
Ed ora, al culmine d’un discorso, che da poetico diventa rito, liturgia della parola, rigore e severità, essenzialità gestuale, recitazione (ronconiana) tra lo stentoreo e lo ieratico, Ronconi si spinge alla massima provocazione: la contestazione della teatralità, contraddicendo – poco male – quanto lui stesso aveva dichiarato, negli anni Ottanta, a proposito di “Affabulazione”: “Non concordo con l’idea pasoliniana d’un teatro oratorio, sede di un recitativo monastico…”
Ma con “Lehman – Trilogy”, di Stefano Massini, poco manca a Ronconi dall’approdare sulle sponde pasoliniane della sacralità della parola, immergendosi, con una passione talvolta esasperata, nell’analisi del testo teatrale, come prassi e religione, centellinando gli strutturali valori della parola, qui trionfante in tutte le sue pieghe espressive.
Ovvio che, con queste premesse, il tempo (come durata dello spettacolo) diventa un aspetto di secondaria importanza, pur di perseguire il fine equazionale della sua ferrea logica, dalla premessa a una dimostrazione senza incognite. E così, con una tenuta tanto affascinante quanto faticosa, lo spettacolo al Piccolo Teatro Grassi (in due parti, 2 ore e quaranta la prima e 1 ora e cinquantacinque la seconda: lo si può vedere tutto di fila oppure separatamente) offre la sorpresa, a parte la durata, d’un Ronconi diverso, a cominciare dalla scenografia, che rinuncia agli amati marchingegni meccanicistici e che si limita a una scena vuota, solo con qualche giochino di sedie e tavoli metallici, che ora emergono sobriamente dall’impiantito scenico leggermente inclinato, ora scompaiono, altrettanto sobriamente.

I tre patriarchi della famiglia Lehman: Henry (Massimo De Francovich), Emanuel (Fabrizio Gifuni) e Mayer (Massimo Popolizio)
E di sobria gestualità, a parte la succitata enfasi recitativa, è scandita la dizione degli interpreti, che costruiscono l’avventura dei fratelli Lehman, ebrei di Germania, emigrati dalla Baviera all’Alabama “per far fortuna in America”. Più una ballata che una saga (parola di Ronconi), che ha all’interno, in un simbolico blues, una più sottile parabola: dalla benedizione dei soldi alla maledizione dell’accumulo. Dalla laboriosa ingenuità degli inizi, come commercianti di cotone grezzo, alla furbizia di una trionfante speculazione. Dalla purezza alla dannazione. Passando indenni attraverso il disastro di Wall Street, nel ’29, con quel lungo corteo di chi in Borsa perse tutto e finì suicida, fino ad arrivare a quel fatidico crack del 15 settembre del 2008, dal quale i Lehman Brothers, questa volta non si salvarono, trascinando nel baratro le Borse europee, e l’economia mondiale. Già, perché i Lehman furono protagonisti di centosessant’anni di capitalismo americano, divenendo, da modesti commercianti di cotone, mediatori di successo, spregiudicati investitori di denaro, abili protagonisti della Borsa, insuperati maestri dell’alta finanza, esperti in marketing, banchieri accreditati come rappresentanti di una della quattro più importanti banche d’affari americane…
Insomma, la biografia semplicemente esaltante d’una famiglia, artefice di quel futuro radioso decantato del sogno kennediano.
Ebbene, maneggiando questa materia, ricostruita da Stefano Massini, la regia di Ronconi, senza nulla togliere alla bellezza del testo, l’ha a sua volta ricostruita dandole nuova vita, pulsioni, pensieri (attenzione, di azione non si parla) grazie a dei meravigliosi protagonisti, che sostengono la difficile impalcatura di questo teatro di parola, a cominciare dai tre pionieri Lehman: Henry, l’anziano, il capo, autoritario e decisionista (un acuto sornione ironico Massimo De Francovich); Emanuel, pragmatico esecutore (un duro ma cedevole Fabrizio Gifuni); Mayer, modesto ma fine diplomatico e cocciuto realizzatore (un esaltante Massimo Popolizio). E poi arriva la seconda generazione dei Lehman: Philip, figlio di Emanuel, il massimo artefice delle fortune di famiglia (un Paolo Pierobon in stato di grazia), e il mistico politico Herbert, figlio di Mayer (Roberto Zibetti). E, infine, Robert, fragile figlio di Philip (Fausto Cabra), che porta a conclusione la ballata ronconiana (a tempo di twist): la fatale bancarotta è all’orizzonte.
Immensi applausi alla prima per tutti. Parterre di attori, operatori, critici. E un pubblico, provato ma entusiasta.
“Lehman – Trilogy” di Stefano Massini – Prima parte: “Tre fratelli”- Seconda parte: “Padri e figli” – – Regia di Luca Ronconi. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2, Milano. Repliche fino a domenica 15 marzo. Si può vedere una o entrambe le parti nell’arco della settimana.
Informazioni e prenotazioni 848800304.
www.piccoloteatro.org