(di Carla Maria Casanova) Dopo le 5 ore e mezza di “Les Troyens” di Berlioz, alla Scala un’opera brevissima: “Elektra” di Richard Srauss: un’ora e 45 minuti. Due successi memorabili, per il Teatro milanese sommerso in questi giorni da un groviglio di insospettate e inaspettate polemiche in un’altalena di pareri, decisioni, nomine ventilate, ritirate e riconfermate, dalla attuazione delle quali dipenderà il suo (della Scala) futuro. Due successi prossimi al delirio, con standing ovation di tutto il pubblico, è buona cosa e predispone alla clemenza anche il pubblico più riottoso.
“Elektra” brevissima, si è detto, però quei centocinque minuti (un atto senza intervallo) sono così intensi e densi che forse non si reggerebbero se fossero di più. Composta 4 anni dopo lo strepitoso successo della “Salome” (1909), “Elektra” è più difficile, provocatoria, crudele e barbarica. Ma la collaborazione tra Strauss e Hofmannsthal, che da qui prende inizio e seguiterà in accordo perfetto per anni, è di tale affinità di cultura e temperamento tra musicista e poeta da sortire una commistione perfetta. Questa “Elektra” non ha le implicazioni religiose dell’omonima tragedia di Sofocle: vive soltanto un delirio di vendetta talmente estremo da non sopportarne più il soddisfacimento. Quando Oreste, il fratello vendicatore, arriva infine e uccide la madre Clitemnestra che aveva fatto trucidare il marito Agamennone (anche se qualche motivo, lei, l’aveva pure), quando “giustizia è fatta”, la gioia trascina Elektra in una danza forsennata che culmina con la sua morte.
D’altra parte, stiamo parlando di tragedia, no? Tuttavia Hofmannsthal trova modo di metterle in bocca anche parole sublimi come queste “Questa musica io non sento? Esce da me.” L’edizione dell’opera in scena alla Scala è quella oramai celebre realizzata da Patrice Chéreau per Aix en Provence nell’estate 2013 e purtroppo diventata il suo testamento artistico. Chéreau morirà per un tumore tre mesi dopo. Il sovrintendente uscente della Scala Stéphane Lissner, amico fraterno del regista, lo ha commemorato all’inizio dello spettacolo.
È lui che ha voluto recuperare questo allestimento, benché la Scala abbia in archivio una “Elektra” di Ronconi/Aulenti (2005) di grande pregio. Due mondi diversi. Tanto Ronconi era carnale, barocco e visivamente aggressivo, altrettanto Chéreau è asettico, asciutto, povero, esplosivo psicologicamente. Grigie pareti immense, qualche dislivello, costumi casual alla Bertold Brecht (scene di Richard Peduzzi collaboratore storico di Chéreau) Tutto è giocato sui personaggi, grandiosi.
Grandiosi anche gli interpreti, sia sul versante vocale che scenico. Gigantesca Evelyn Herlitzius (Elektra), superba Waltraud Meier (Clitemnestra). Seguono, eccellenti, Adrianne Pieczonka (Crisotemide), René Pape (Oreste), Thomas Randle (Egisto). Beninteso il segreto sta nel manico, la bacchetta di Esa Pekka Salonen, per la prima volta alle prese con “Elektra”, “opera che conclude il processo iniziato con Wagner”. “Una scrittura – dice Salonen- addirittura “iperattiva” che obbliga il direttore a un’estrema vigilanza sugli equilibri tra orchestra e voci, per non costringere i cantanti a gridare”. L’equilibrio non è mai venuto meno. Pubblico in visibilio.
Repliche 21, 24 maggio, 3,6, 10 giugno
www.teatroallascala.org
Scala: una crudele barbarica provocatoria Elektra (Evelyn Herlitzius). Da delirio. In ricordo di Chéreau
19 Maggio 2014 by