(di Marisa Marzelli) Un film scioccante, impasto ipnotico di sangue, neve, tradimenti e vendetta, non è automaticamente un grande film. Lo so, bisogna essere cautin ell’esprimere riserve perché stiamo parlando del “film dell’anno”, Revenant (Redivivo), che ha incassato il maggior numero di candidature all’Oscar (12) e giudizi entusiastici. Ma proprio perché è una pellicola complessa, anzi aspira ad essere un film “totale”, voglioso di dire una parola (metaforica) definitiva sul cuore degli uomini e la potenza-indifferenza della natura nei confronti dei nostri affanni per la sopravvivenza, Revenant va guardato senza indulgenze.
Partiamo dal regista. Alejandro Gonzales Iñarritu, messicano, è il trionfatore degli Oscar dell’anno scorso con Birdman, lavoro agli antipodi di Revenant. Per tematiche, ambientazione, contenuti e stile. Dunque un autore eclettico, e questo è un pregio, tanto bravo tecnicamente da inseguire il virtuosismo e l’azzardo più spinti. Birdman mostrava una vena cerebrale, come i tre film che gli hanno dato notorietà (Amores Perros, 21Grammi e Babel), tutti scritti dallo sceneggiatore Guillermo Arriaga e con la caratteristica di intrecciare strettamente storie diverse. Poi Iñarritu e Arriaga hanno litigato, perché lo sceneggiatore pretendeva gli venisse riconosciuta la dignità di coautore.
Da lì il cinema di Iñarritu ha cambiato strada.
Lo ritroviamo ora con un western che più western non si può, con una“fisicità” primordiale. Tanto che sul set, con location in luoghi estremi di Canada e Argentina, c’erano state anche proteste delle maestranze per le difficoltà di girare in zone impervie scene pericolose. Revenant cita esplicitamente (copia con intelligenza?) tre modelli. Certi film estremi di un Werner Herzog fuori di testa – da Aguirre, furore di Dio a Fitzcarraldo –; lo stile (ma non certo la poetica New Age) di Terrence Malick, anche perché il bravissimo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki ha lavorato più volte con Malick, e Into The Wild, inarrivabile nel raccontare la lotta tra la volontà dell’uomo e la forza della natura. Ma nel film di Sean Penn c’era quel pathos, quello sbigottimento dello spettatore che Revenant non riesce mai a raggiungere nelle due ore e mezzo di durata.
Molto liberamente tratto da un libro di Michael Punke (2004) il film racconta del cacciatore di pelli Hugh Glass (Leonardo DiCaprio, candidato all’Oscar), uno di quegli eroi della Frontiera americana le cui imprese si collocano tra realtà e leggenda, come David Crockett e Bufalo Bill, ma meno noto.
Siamo nel 1823. Glass, esploratore di un gruppo di cacciatori di pelli, è assalito da un enorme Grizzli. Dato per spacciato dai compagni, alle prese con un assalto indiano, viene abbandonato; solo il figlio mezzosangue e due uomini restano ad assisterlo nell’agonia, col compito di seppellirlo. Ma il brutale Fitzgerald (Tom Hardy, candidato all’Oscar sia per questo film che per Mad Max:Fury Road) ha fretta, prima uccide il figlio, poi abbandona Glass al suo destino. Quest’ultimo invece riesce a sopravvivere e giura vendetta. Sarà questo sentimento a tenerlo in vita, tra pene e pericoli infiniti del gelido inverno.
Il plot è stato definito un ritorno di Ulisse e tutti i personaggi hanno una possanza da semidei della mitologia classica. Revenant aggiunge: cacciatori bastardi avidi di pelli e di denaro (c’è anche un gruppo di francesi in competizione con gli americani), tribù di indiani ostili o alleati, animali selvaggi, gelo, cascate, gamba rotta, cancrena e fame del povero Glass, che nel delirio dà forma a scene oniriche. Non gli viene risparmiato nulla, dalle zampate in piano sequenza (e in computer grafica) dell’orso allo svuotare le interiora di un cavallo appena morto per rifugiarsi nella sua carcassa ancora calda. Lo spettatore di oggi resta basito, soprattutto quello metropolitano e magari animalista. Ma, si sa, agli americani piace l’epica ancestrale del Far West fatta di natura matrigna e uomini violenti pronti a tutto.
DiCaprio è bravo, come sempre. Puoi fargli interpretare qualsiasi cosa, da un decrepito capo dell’FBI a un broker di Wall Street fatto di coca, e non delude mai. Ma qui, barba incolta, incrostata di ghiaccioli, quasi sempre rantolante, zoppicante e stremato, nemmeno si riconosce. Se gli danno l’Oscar per questa interpretazione premiano una performance unica ma non la sua consueta cifra stilistica di attore raffinato che lavora di piccoli dettagli.
Ancora una considerazione. Non si sa se Iñarritu centrerà l’en plein come l’anno scorso. Di sicuro si conferma un primo della classe, ma adesso aspettiamo con trepidazione l’uscita di The Hateful Eight di Quentin Tarantino, che di candidature all’Oscar ne ha solo tre (compreso Morricone per la colonna sonora). Anche lui con un western, innevato e brutale come quello di Iñarritu. Sarà interessante mettere a confronto le due opere. Se Tarantino, come d’abitudine, saprà ribaltare la violenza del plot con uno sberleffo ironico, avrà dimostrato una marcia in più rispetto a Iñarritu, che non esce dal registro esclusivamente drammatico.
Scalata all’Oscar di “Revenant” con ben dodici candidature. Un primordiale film western che più western non si può
17 Gennaio 2016 by