MILANO ► (di Carla Maria Casanova) “Fin de partie” alla Scala, prima mondiale dell’opera di György Kurtág, da “Scènes et monologues” di Samuel Beckett. Atto unico di minuti 130. Discettare su un binomio Beckett/Kurtág non è semplice. Facciamo così: chi già sa o ha visto l’opera, il commento se lo fa da sé. Per coloro che non sanno o non hanno visto l’opera, cercherò di riassumere in “parole povere” (vale a dire con le mie).
Premessa: durante i primi 60 minuti di spettacolo, nei brevissimi cambi di scena a sipario calato, parecchi spettatori hanno lasciato la sala alla chetichella. Platea quasi dimezzata, palchi dimezzati del tutto. Confesso che pure io una fiera tentazione l’ho avuta. Sulla scena, di uno squallore angoscioso, non succede niente né molto succede nella musica, accompagnamento basso, discreto, non sviluppo sinfonico ma di gruppi strumentali. Se continuava così, si poteva risparmiarsi il resto. Ma, a meno di non avere serissimi motivi, ritengo che non si debba lasciare uno spettacolo MAI. E poi Beckett non si lascia mai comunque. Dunque lì fino in fondo.
Ed ecco che qualcosa si sprigiona da quel palco e da quella musica. Ti soggioga e avviluppa come un pitone e non ti lascia più. Un sortilegio inesorabile. L’assurdo ti coinvolge senza pietà. La musica anche. La storia di “Fin de partie” è surreale, ma fino a un certo punto. È la situazione ricorrente negli scacchi quando l’esito della partita è segnato ma i giocatori inesperti continuano a muovere i pezzi a vuoto senza rendersi conto che non esiste speranza.
In scena, c’è un uomo in carrozzella (Hamm) cieco e paralitico. Clov, servo sciancato e schizofrenico, accudisce alla bell’e meglio lui e i vecchissimi genitori, che stanno in due bidoni della spazzatura, parlando a vanvera e infastidendo il figlio. Poi loro spariscono e Hamm, licenziato Clov, aspetta la fine.
L’ambiente, tutto giocato su nero e grigio (scenografo Christof Hetzer) esibisce una casa dalle linee essenziali, due bidoni, l’uomo sulla carrozzella. La casa cambia un po’ angolazione nelle diverse scene. Il testo è cantato nella versione originale francese (Samuel Beckett, nato in Irlanda, si trasferì definitivamente a Parigi che fu il suo mondo intellettuale).
A tratti ci si domanda perché la musica. È un’opera o un sottofondo di commento al dramma? Eh no, anche se finisce per essere un colloquio/dialogo fatto di monologhi, il tessuto orchestrale, sommerso ma irrinunciabile, strettamente legato alla vocalità con la quale tesse una trama unica, sostiene tutta l’azione. Nella sua cupezza ci sono bagliori di luce, addirittura accenni – rarissimi- a ballabili, quando nel testo si accenna al canto degli uccelli o all’amore di una donna.
(Due parole su György Kurtág, considerato il più grande compositore vivente. Nato in Romania (1926), pianoforte a cinque anni con la madre, a venti stabilitosi a Budapest, nel 1947 sposa Marta Kinsker, con la quale costituisce un duo pianistico. Nel ’56, a Parigi, incontra Milhaud e Messiaen. Si lega di amicizia con Ligeti. La sua produzione – rimasta a lungo circoscritta a un’area ristretta dei Paesi dell’est, arriverà tardi in Occidente – è tormentata e bloccata da crisi creative. L’incontro con la psicologa Marianne Stein e le poesie di Rimma Dalos e Anna Achmatova gli forniscono ragioni di una ripresa artistica. Insegna all’Accademia di Musica di Budapest dal 1967 al 1993. Dal 2002 al 2015 Kurtág e la moglie vivono in Francia, vicino a Bordeaux. Fra i tanti premi, nel 2009 il Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia. György Kurtág è in questi giorni protagonista del 27° Festival Milano Musica).
Fin de partie è la prima (ed unica) opera lirica di Kurtág. La dobbiamo all’intuito e alla costanza del sovrintendente Alexander Pereira che per dieci anni chiese al renitente compositore di mettere in musica il testo di Beckett. Ci è riuscito. Ed ha prodotto uno spettacolo felice sia pur durissimo.
Interpreti straordinari. Il nome di Frode Olsen non dirà forse tanto, ma la sua performance vocale e scenica è strabiliante, con quella bocca spalancata che ricorda l’urlo di Eva nella cacciata dall’Eden di Masaccio. E lo scemo Clov (Leigh Melrose) gli sta alla pari. Bravissimo anche Leonardo Cortellazzi nel suo querulo piagnisteo. Markus Stenz dirige (senza bacchetta) come plasmasse una storia personale. Il regista Pierre Audi ha avuto percezioni sovrane, come far coincidere sull’angolo del muro della casa la proiezione delle ombre di Hamm e Clov, distanti fra loro. Lì, i due si incontrano.
Successo intensissimo.
Repliche 20, 22, 24, 25 novembre.
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