MILANO, mercoledì 9 gennaio ► (di Emanuela Dini) “La signorina Else” è un racconto di Arthur Schnitzler, scritto nel 1924, breve, feroce e crudele. Si narra la vicenda di Else, appena adolescente, figlia dell’ex ricca borghesia di Vienna, in vacanza a San Martino di Castrozza – a quell’epoca molto in voga nell’alta società austroungarica – ospite di una zia ricca nel lussuoso Grand Hotel. La sua famiglia è allo sfascio; il padre, avvocato, gioca in Borsa, dilapida il patrimonio, si impossessa dei beni di un suo assistito minorenne e rischia l’arresto e la galera. La madre, che a Else ha insegnato solo a suonare il pianoforte e parlare francese, le scrive una lettera melliflua e agghiacciante, dove, senza tanti giri di parole, la prega di chiedere in prestito al facoltoso “ma detto tra noi, non proprio finissimo” signor Dorsday, anche lui ospite in albergo, i 30.000 fiorini necessari a coprire i debiti del padre.
Tutto questo succede nelle prime venti pagine del racconto, le restanti cento sono un atroce, fiammeggiante, tragico e lirico monologo interiore della ragazza, che si trova annientata da questa richiesta, vissuta prima con incredulità, poi come ingiustizia – “Ma cosa volete da me?” – fino a trasformarsi in una sfida mortale. E alterna i ricordi di quand’era bambina con i sogni di adolescente, la rabbia verso il padre e la madre con l’infatuazione per il cugino, il rimpianto di un’infanzia agiata e la consapevolezza del suo essere bella con l’umiliazione attuale di “nipote povera della zia ricca” che deve nascondere il piccolo buco sulle calze di seta.
Trasformare questo testo, che corre irruento, sofferto, lucido e persino ironico, in spettacolo teatrale è un’impresa coraggiosa e difficile. Federico Tiezzi l’ha realizzata con un atto unico di un’ora e 20 (senza intervallo) e spirito chirurgico “vivisezionando” il testo, che ha rispettato con una fedeltà totale, e presentando una Else sul tavolo dell’obitorio, con tanto di spettatori invitati a indossare il camice verde da chirurgo – e tutti l’hanno fatto – per osservare con occhio clinico il turbamento, le fantasticherie, l’autodistruzione della ragazza, dilaniata tra l’affetto e il disprezzo verso un padre così indegno, ma che in punto di morte lo invoca per “volare insieme”.
La messa in scena è algida e asettica come un obitorio, Lucrezia Guidone dà vita a una Else a volte fragile e impaurita, a volte caustica e disincantata; Martino D’Amico è un Dorsday quasi perbene, che in cambio del denaro le chiede solo “un quarto d’ora di contemplazione della sua nuda bellezza”. Un trio di musicisti, Dagmar Bathmann, Omar Cecchi e Lorenzo Laurino, accompagnano gli eventi.
Mancano, forse, il ritmo e la disperazione travolgente che dal testo arrivano con velocità spiazzante e imprevedibile, e fanno quasi toccare con mano il sacrifico annunciato di Else.
Sala strapiena con una buona percentuale di giovani, applausi che premiano gli attori.
“La Signorina Else”, di Arthur Schnitzler – regia di Federico Tiezzi – con Lucrezia Guidone e Martino D’Amico; e con Dagmar Bathmann (pianoforte e violoncello), Omar Cecchi (percussioni), Lorenzo Laurino (clarinetti). Al Piccolo Teatro Studio Melato, fino a domenica 20 gennaio.
Informazioni e prenotazioni 0242411889
www.piccoloteatro.org