Scrittori si nasce o si diventa? Rigore e fatica: la lezione di Giuseppe Pontiggia, indimenticabile “alchimista della parola”

(di Piero Lotito) A chi ne avesse sentito la voce almeno una volta – anche alla radio o alle conferenze -, sembrerà di ascoltarlo di nuovo nel suo sapiente, preciso, amabile eloquio. Basterà scorrere le pagine di Per scrivere bene imparate a nuotare per riprendere diretto contatto con Giuseppe Pontiggia e la sua voce, così pacata eppure così elettricamente ironica nel dipanare le questioni del linguaggio, della lettura, in fin dei conti della scrittura. Arriva, il volume pubblicato da Mondadori, a diciassette anni dalla morte dell’indimenticato autore di Nati due volte, La grande sera, Vite di uomini non illustri, Le sabbie immobili, La morte in banca. Come sempre accade con gli scrittori ai quali si è affezionati e che troppo presto se ne vanno, anche ai lettori tocca affrontare un lungo periodo di elaborazione del lutto. È infatti bastata l’uscita di questo libro, che riunisce trentasette lezioni di scrittura (trentatré conversazioni pubblicate tra il 1990 e il 1993 dalla rivista Wimbledon di Giorgio Dell’Arti più quattro interventi su Sette), perché ci si rendesse conto di come sia ancora sofferta la mancanza di uno scrittore come Pontiggia, morto il 27 giugno 2003, nell’attuale, spento panorama culturale italiano.
Chissà quante volte il grande autore si sarà sentito chiedere se scrittori si nasce o si diventa. Ne conosciamo la risposta, con minime variazioni: «Non ho mai conosciuto nessuno che sia “nato” scrittore. Ho conosciuto alcuni che lo sono diventati dopo un tirocinio molto duro, fatto di tentativi, scacchi, fallimenti, provvisorie esultanze e ricorrenti depressioni». Pontiggia sembra dunque indicare i valori essenziali del lavoro, della fiducia, dell’ostinazione. E a chi, appunto ostinato, gli domandava più esplicitamente “come” fare per diventare scrittore, egli in sostanza non rispondeva: mettere in guardia dagli errori era già una strada e poteva bastare.
I suoi corsi di scrittura al Teatro Verdi di via Pastrengo, a Milano (per dodici anni, dal 1985 al 1996, quando in Italia quasi non si aveva idea di come fosse una scuola in materia, e fu Raffaele Crovi a fondare quella appunto di via Pastrengo), sono rimasti famosi per la singolare efficacia del metodo e per la forte carica di empatia tra allievi e docente. Lo scrittore non aveva mai voluto mettere mano a un manuale di scrittura: gli premeva stare a diretto contatto con gli allievi, ritenendo fondamentale l’apporto della voce, del gesto, anche delle pause e dello sguardo, che soltanto il parlato permette. Come tradurre tutto ciò nella stesura di un testo?
Delle trentasette lezioni, pubblicate a cura di Cristiana De Santis con prefazione di Paolo Di Paolo, le prime trentatré sono in realtà “conversazioni con sé”, nel senso che l’autore si pone domande e si fornisce risposte sul complesso universo della scrittura “espressiva”. Un esempio: Tu credi che per un narratore sia indispensabile una preparazione teorica di carattere generale? «No. Però non conosco narratore, come non conosco artista in generale, che non sia padrone dei propri strumenti, che non sia cosciente del proprio mestiere». Poi, sul riassunto delle trame: Tu lo fai per i tuoi romanzi? «Sì, lo faccio nelle interviste e negli stessi risvolti, quando li scrivo io». E che cosa ti sembra di fare? «Di tradirli. Di darne una immagine che può essere funzionale per altre letture funzionali, che riguardano la recensione, la pubblicità, i librai, la mediazione per il pubblico. Già l’aggettivo “funzionale” dice tutto». Più avanti, su tecnica e artificio: Qual è la differenza? «Che l’artificio tende a negare la naturalezza, mentre la tecnica a favorirla […]. Nuotare, ad esempio, è un’arte che si apprende, non un artificio che si pratica». Tu non credi che sia spontaneo nuotare? «No, è spontaneo andare a fondo. Chi non ha imparato l’arte del nuoto compie una serie di movimenti disordinati che provocano l’annegamento».
Pur limitandosi con i suoi allievi a consigli «propositivi e non impositivi», quando lo scrittore Pontiggia faceva posto al Pontiggia lettore delle prove degli allievi, i suoi giudizi – ricorderà negli anni la scrittrice Laura Bosio, formatasi a quegli insegnamenti, si facevano a volte raggelanti: «misurati e circostanziati, implacabili, tremendi». Implacabile, Pontiggia lo era anche in proprio, al lavoro nel suo studio, quando – nel ricordo di Giancarlo Maggiulli, al tempo del Teatro Verdi suo collaboratore e oggi editor di Adelphi – «in quella tenace ricerca della parola perfetta (una ricerca fatta anche di tentativi, di esplorazioni in più direzioni), vedevo all’opera una sorta di alchimista della parola». Pontiggia, d’altronde, con la sua ineffabile ironia non si è mai sottratto a un apparente paradosso: «Oscar Wilde, a proposito di ispirazione e lavoro, diceva che uno scrittore può impiegare una mattina per mettere una virgola e un pomeriggio per toglierla. È auspicabile che non tutti i giorni siano così».

Giuseppe Pontiggia, “Per scrivere bene imparate a nuotare”, a cura di Cristiana De Santis – Mondadori 2020 – pp. 187 – € 19.