Scrivere alla velocità del pensiero. E l’immagine mentale diventa teatro recitando rapida sul palcoscenico della parola

Anna Maria Trombetti al Congresso Intersteno di Pechino, nell'agosto 2009, impegnata a prendere veloci appunti in una pausa dei lavori

Anna Maria Trombetti al Congresso Intersteno di Pechino, nell’agosto 2009, impegnata a prendere veloci appunti in una pausa dei lavori

(di Anna Maria Trombetti) Si può considerare la Stenografia una forma di spettacolo? E in che misura una mano che si muove, discreta e silenziosa, può essere equiparata ad una realtà che produce – e trasmette- emozione? Può sembrare una domanda retorica, ma, al di là del fatto che questo aspetto, nella vastissima letteratura stenografica, non sembra essere stato indagato (se non, forse, molto marginalmente), sono il contesto della Rivista, ed il suo titolo, lo Spettacoliere, a stimolare una riflessione in tal senso. Lo stesso sottotitolo, con il richiamo alle “note di varia umanità”,  accende un riflettore suggestivo sulla possibilità di una relazione “ontologica” tra i due termini: la scrittura, con la sua primaria funzione annotativa, e la vita, con la pluralità e mutevolezza delle scenografie che le fanno da sfondo. Quante volte il concetto di teatralità non interviene a suggerire il parallelo con l’esistenza e le “parti” che gli esseri umani singolarmente e collettivamente vi giocano?
Gli Stenografi non sfuggono alla legge dell’ identificazione con un ruolo; la loro funzione coincide, tanto con la necessità di rappresentare documentalmente la verbalità, facendo di questa la protagonista che ogni volta “si recita a soggetto” (il “si” è riflessivo) sul palcoscenico dell’estemporaneità, quanto con la gestuale espressione in cui si condensa il movimentismo grafico e specialistico dei segni. Ed è in ambedue questi aspetti  che si manifesta la spettacolaristica sostanza della ripresa stenografica. Spettacolo, infatti, non è soltanto ciò che cade sotto i sensi  in forma straordinaria, suscitando un inatteso, momentaneo stupore, ma l’oggettivizzazione di un sentimento di meraviglia capace di accendere lo sguardo di profonda consapevolezza nei confronti di un fenomeno. Assistere alla genesi di un testo che da immagine mentale si trasforma seduta stante in concretezza di scrittura tra le righe di un minimo supporto cartaceo, senza ricorso ad alcun strumento energetico esterno, rappresenta un’esperienza spirituale simile al transfert psicologico che uno spettatore a teatro compie verso l’attore protagonista. Chi non avvertirebbe l’impulso a realizzare una simbiosi valoriale con chi, nella finzione scenica, esibisce qualche speciale talento?
Nel film “I demoni di San Pietroburgo” (2007, regia di Giuliano Montaldo) la figura di Anna Grigorjevna si accende di grande risalto nelle scene che la riprendono mentre stenografa gli improvvisati contenuti di un romanzo di Dostoevskij, in un primo tempo suo datore di lavoro, poi marito che delle mani di lei non può fare più a meno. La suggestività delle numerose inquadrature punta a concentrare sulla donna un’attenzione molto maggiore di quella che suscita lo scrittore nelle concitate fasi della dettatura, quasi a rendere evento a sé, “spettacolo nello spettacolo”, questo capolavoro di cinematografica psicologia. Sembra che l’interprete, Carolina Crescentini, abbia preso qualche lezione di Stenografia a Roma, per immedesimarsi con più veridicità nel suo ruolo, ma già osservarla dietro la scrivania nella seria eppur naturale concentrazione dei gesti, curva sul foglio che va velocemente riempiendosi di segni minuti, rappresenta per lo spettatore un impatto con una corrente misteriosa che lo coinvolge ed affascina.
Ed è sempre così, nella realtà dell’osservazione diretta del fenomeno “stenoscrittura”, fenomeno oggi meno frequente a vedersi nelle aule italiane (non è così in altre nazioni europee) in cui si fa professionale attività di resocontazione, e purtuttavia presente negli ambiti dove ai resocontisti è richiesto un servizio di particolare resa qualitativa.
Già la logistica, assegnando a questi un posto speciale per la verbalizzazione delle sedute, consente di riagganciarsi alla categoria teatrale dove la collocazione degli interpreti sul palcoscenico risponde a ben definiti criteri di  messinscena per la realizzazione dell’atto comunicativo prefigurato nei testi. La loro manuale ripresa postula che gli stenografi debbano poter ritrovarsi in situazione di privilegiata comunicazione con l’emittenza, non soltanto per esigenze acustiche, ma per essere in tandem con la loro vocale produzione.
Nell’ideale ping-pong tra chi parla e chi sincronicamente scrive le parole pronunciate, si realizza un passaggio che non è di semplice “registrazione” verbale, ma di sostanziale portata umanistica. Anche le fotografie provenienti dagli archivi del passato mostrano bene questo dato e lo studio che vi presiede; i giornalisti stenografi di epoca fascista, ad esempio, occupano sempre una posizione strategica in funzione dell’oratoria mussoliniana esternata nelle più diverse circostanze di incontro con singoli gruppi o sterminate folle: in piedi, con i loro piccoli supporti cartacei in mano, la testa china sul percorso in atto del tracciato grafico, risaltano nell’amalgama di una poliedrica scena dove la macchina fotografica li ha per sempre immortalati. E il teatro della Storia inconsapevolmente se ne serve per mostrare come il concorso storico dei ruoli più diversi corrisponda alla funzione della luce nei quadri caravaggeschi: mettere in risalto o in ombra gli aspetti su cui incombe il realistico giudizio del momento presente.