(di Riccardo Pastorello) – I recenti avvenimenti, che hanno precipitato il teatro italiano in un abisso dal quale uscire sarà forse non impossibile, ma molto lungo e faticoso, pongono alcuni quesiti sulle origini della debolezza strutturale del nostro sistema.
Vorrei provare a elencarne alcuni che sono comuni all’andamento della gestione generale del paese per quello che riguarda le attività di spettacolo cosiddette creative e/o culturali e al relativo sostegno dello Stato.
La prima debolezza, che è alla base di tutte le altre, è senza dubbio il costante e perdurante calo di importanza delle attività di spettacolo “di qualità” nella scala delle priorità culturali del nostro sistema educativo. Un numero sempre minore di insegnanti – gli unici a poter fare da tramite fra i giovani e il teatro – si premura di organizzare e educare i ragazzi, a “fare teatro” (anche nel rispetto di indicazioni ministeriali) piuttosto che a “andare a teatro”, facendo così un corretto lavoro di formazione del potenziale pubblico del futuro. Le famiglie, a loro volta, sono sempre meno propense a indirizzare una parte delle loro scarse risorse economiche a questo tipo di investimento.
A questo calo hanno inoltre contribuito mezzi dal potere comunicativo che, se meno qualificati dal punto di vista educativo e culturale, sono molto più forti di quelli a disposizione dello spettacolo dal vivo. È sotto gli occhi di ognuno che la cosiddetta comunicazione social abbia rappresentato una regressione puerile del livello culturale, ma dotata di una forza di convincimento del tutto inimmaginabile fino a poco più di venti anni fa. McLuhan ha già detto tutto in proposito e aggiungere altro non avrebbe senso.
Allo stesso tempo, nel corso di venti anni, da mezzo elitario, apprezzato però da un gran numero di utilizzatori, il teatro ha cominciato a godere dell’interesse della classe politica in tutte le sue articolazioni e gradi. Ottima cosa, si dirà. Non è purtroppo andata proprio così. Con l’intenzione di sostenerlo, il settore è stato frantumato in tante piccole repubblichette nelle quali a volte l’assessore di turno e il dirigente di settore della pubblica amministrazione, con poche competenze del mestiere del teatro, hanno sostenuto, realtà di scarso rilievo. Il sistema si è allargato, ma a un livello più basso del previsto, sia dal punto di vista artistico che da quello manageriale. Il riscontro della presenza degli spettatori è stato del tutto negletto.
Nel suo complesso, negli ultimi quindici o venti anni, la richiesta di spettacolo si è stabilizzata. Invito tutti quelli che oggi fanno propaganda a se stessi, continuando a compiacersi che tutto vada bene – a casa loro, poiché a casa degli altri, ovviamente, va tutto male – a riconsiderare i dati degli spettatori di oggi e quelli di quindici anni fa. Ci si accorgerà che i soggetti che propongono spettacolo si sono moltiplicati e la quantità complessiva dei fruitori è rimasta pressappoco la stessa. Ergo: non solo non c’è stata crescita, ma si è verificata una frantumazione dell’offerta che qualsiasi sociologo o economista della cultura giudicherà regressiva.
A livello centrale si poteva fare molto e invece che cosa è successo? Molte cose interessanti da un punto di vista teorico, ma che nella pratica hanno tenuto a galla quasi tutti i beneficiari dei contributi statali, aggiungendone altri in presenza di risorse diminuite in termini assoluti con sempre minore quantità di quelle destinate al palcoscenico.
Tenuti a galla in senso del tutto negativo, poiché rimanere a galla non può che avere un significato negativo.
Le circolari prima, a partire dal direttore generale Carmelo Rocca e i regolamenti degli ultimi decenni a firma dei vari Ministri, cosa hanno dunque fatto? Una cosa molto semplice e tipicamente italiana: hanno accontentato tutti quelli che andavano accontentati. Ognuno arroccato nel proprio piccolo o grande settore.
Molti di quelli che avrebbero dovuto essere posti in capo alla competenza territoriale delle Regioni, che tanto si sono date da fare per acquisire competenze sul settore con la riforma del titolo V della Costituzione, sono rimaste al centro, in una posizione del tutto anomala, poiché la loro attività non usciva da un tipico e limitato ambito territoriale. Allo stesso tempo, in una logica di tipico assistenzialismo, hanno continuato, con alterne fortune, a chiedere il sostegno anche dell’Ente locale.
Insomma, il calderone è talmente pieno, che si è creata una marmellata nella quale non si distingue più un sapore da un altro e nel quale la contribuzione diretta ha mostrato tutti i suoi limiti. Infatti il sistema si basa da una parte su una sclerosi che porta a storicizzare i contributi e, dall’altra, ad avere una sorta di datore di lavoro occulto rappresentato dallo Stato e dagli Enti locali che ci dicono quanto, dove e come fare il nostro lavoro. I teatranti sono sempre meno occupati nel lavoro di palcoscenico e sempre più attenti a calcoli cabalistici o a combattere la burocrazia o a farsi la guerra, tentando di ottenere dallo Stato un occhio di riguardo in più degli altri, mentre l’unica cosa che dovrebbero capire è che se non si ritorna alla centralità del prodotto, ogni confronto diventa impossibile. Per la televisione lo ha detto molto bene Giovanni Minoli in una recente intervista al Corriere della sera.
Ma allora cosa dovrebbero fare i poveri teatranti, che senza saperlo hanno stretto da soli intorno al loro collo il cappio che oggi li strangola? Cambiare soprattutto la loro mentalità, accettare e chiedere nuovi strumenti: un serio Tax Credit, un altrettanto serio sostegno alla distribuzione (scomparsa dall’orizzonte della politica che ha voluto solo produzione e poi produzione e poi altra produzione) e la fine delle etichette che già esse stesse tentano di definire chi è bravo e chi non lo è. E una seria politica di sostegno, poiché sostenere non è assistere. Sostenere significa muovere e far crescere un sistema che si autoregola e che ha un riscontro nell’economia reale. Assistere significa tenere in vita il più a lungo possibile chi nella realtà è già morto o è divenuto irrilevante.
Dovremmo infine meditare tutti sul fatto che proprio durante questa grande emergenza che l’intero paese ha vissuto, nessuno di noi abbia pensato che ora e non domani o dopodomani, il sistema vada riorganizzato dalle fondamenta, perché se arrancava prima, senza una rivoluzione copernicana, come potrà farlo nel momento in cui sono venute meno le condizioni basilari del suo funzionamento?
Scuola, enti locali, burocrati, trafficoni. Tutti insieme appassionatamente nel gran calderone d’un teatro in crisi
12 Aprile 2021 by