(di Marisa Marzelli) Nella filmografia di Steven Spielberg c’è un preciso filone storico. Sono le opere in cui il regista si focalizza su un particolare e circoscritto fatto per raccontarlo ma anche per allargare il discorso all’epoca e alla società in cui si svolge. È capitato con titoli come Schindler’s List, Amistad, Lincoln, Munich, Salvate il soldato Ryan, Il ponte delle spie e ora The Post.
The Post è la storia dei “Pentagon Papers”, uno studio commissionato dal segretario alla difesa Robert McNamara; documenti governativi top-secret dai quali emergeva la consapevolezza che la guerra in Vietnam non sarebbe stata vinta, tenendo all’oscuro l’opinione pubblica, ma gli Stati Uniti continuavano a combatterla. Per varie ragioni, in particolare perché non volevano subire l’umiliazione di una sconfitta americana. Erano già coinvolte quattro amministrazioni: Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson.
L’azione si svolge prevalentemente in pochi giorni, nel 1971. Il New York Times ha messo le mani su alcuni di quei documenti e comincia a pubblicarli. Il Washington Post, giornale più regionale e meno autorevole, ma guidato dal coriaceo direttore Ben Bradlee (Tom Hanks), riesce a procurarsi i 7.000 fogli dello scottante malloppo. Il presidente Nixon diffida il New York Times dal fare altre rivelazioni, per non pregiudicare la sicurezza nazionale, e trascina il giornale in tribunale. A questo punto il Post è a un bivio: pubblicare o no? Il direttore è per il sì, ma la proprietaria Kay Graham (Meryl Streep), diventata editore della testata di famiglia dopo la morte del marito e che sta per quotare il Post in borsa, tentenna. Anche perché è una ricca signora dell’establishment di Washington; ai suoi party e alle sue cene sono regolarmente invitate personalità governative, compreso McNamara.
Riunioni convulse, redattori in fibrillazione, battiti frenetici dei tasti delle macchine da scrivere, telefonate fatte da cabine pubbliche in strada per non correre il rischio di essere intercettati, corsa contro il tempo. Alla fine le rotative girano. La gente saprà la verità sulla guerra asiatica.
Ma The Post non è una tardiva celebrazione della mitizzata libertà di stampa come nel cinema degli anni ’50, quando Humphrey Bogart sentenziava: “È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente”. O, almeno, non è solo quello. Perché una parte di effetto nostalgia innegabilmente c’è. Poi c’è la riflessione sulla verità e il divulgarla, a confronto con un’epoca come la nostra intenta a disquisire sulle post-verità e che si nutre quotidianamente di fake news.
Alla fine, sui “Pentagon Papers” la Corte Suprema scagionò sia il New York Times che il Washington Post per le pubblicazioni e riconobbe il loro diritto a farlo. Però il presidente Nixon (nel film ripreso solo da lontano e di spalle) bandì tutti i giornalisti del Post dalla Casa Bianca (ricorda qualcosa di più recente?). Ma i “Pentagon Papers” sono anche l’antefatto dello scandalo Watergate, che portò alle dimissioni del repubblicano Nixon. Nelle scene finali si vede infatti una guardia di sicurezza che scopre l’effrazione all’albergo Watergate di Washington, quartier generale del partito democratico. Il caso Watergate fu, di nuovo, uno scoop del Post con i suoi giovani giornalisti Woodward e Bernstein, mentre il New York Times stava prudentemente a guardare. E al cinema il caso è stato raccontato da quello straordinario film sul giornalismo di Alan Pakula che è Tutti gli uomini del presidente e che appare oggi (se non fosse del 1976) come il logico sequel di The Post.
Si è però detto all’inizio che Spielberg racconta la Storia immergendola nel suo tempo (qui perfette le scenografie e l’atmosfera vintage; per non parlare dell’incipit, con rumore di pale d’elicotteri e un lampo di scene di combattimenti nella giungla, che ricordano quelle di tanti film sul Vietnam) ma anche rendendola comprensibile e quasi familiare a chi allora non c’era e ha come specchio l’attualità.
Ecco perciò una serie di sottotesti che alludono ai giorni nostri. Ad esempio il concetto sottolineato di “stampa come cane da guardia della democrazia”, mentre oggi si sta facendo di tutto per lasciar morire nell’indifferenza la stampa scritta. O la personalità di Kay Graham, diventata editore del giornale in un mondo tutto al maschile che la trattava con educata condiscendenza ritenendola, in quanto donna, non all’altezza del suo incarico. O, ancora, c’è da riflettere sui rapporti, sugli intrecci opachi e contraddittori tra l’élite intellettuale ed economica con il potere. Ieri come oggi. Oggi è peggio di ieri? Forse, se pensiamo allo zunami provocato dai “Pentagon Papers” e poi dal Watergate, a fronte di come siano finite in niente o quasi le rivelazioni di Edward Snowden.
Dal punto di vista strettamente formale, l’eleganza e l’apparente semplicità narrativa di Steven Spielberg sono ormai proverbiali; la sceneggiatura è chiarissima; il ritmo incalzante, da thriller politico; il cast perfetto. Due sole le candidature agli Oscar, ma di peso: come migliore film dell’anno e migliore attrice protagonista per la Streep. Che forse non vincerà perché di Oscar ne ha già 3 e di candidature ne ha collezionate 21.
Segreti militari USA e libertà di stampa. E il “Post” rivelò ciò che non si doveva sapere: la disastrosa guerra in Vietnam
31 Gennaio 2018 by