Sfrontato, provocatorio, irriverente. E dopo tre ore d’un Tarantino immenso, si esce senza fiato sopraffatti dal troppo

the-hateful-eight-nuovo-trailer-del-western-di-quentin-tarantino(di Marisa Marzelli) Uscendo dalla proiezione, oltre tre ore, di The Hateful Eight (Gli odiosi otto, forse parodia del titolo I magnifici sette, ma sarebbe più pertinente tradurre “otto persone piene d’odio”) si è stremati dalla sovrabbondanza di immagini (splendide, il direttore della fotografia Robert Richardson è candidato all’Oscar), dialoghi, violenza splatter, ma consapevoli che per un bel po’ di tempo qualsiasi altro film sembrerà al confronto qualcosa di piccolo e immaginificamente limitato. Tarantino, sfrontato e provocatorio, supera se stesso in quantità e qualità; nel bene per chi lo ammira, nel male per i detrattori. The Hateful Eight (di cui è autore completo: soggetto, sceneggiatura e regia) è il suo film più ricco di elementi  formali e contenutistici, un passo ancora più avanti rispetto a Le iene, Pulp Fiction, Bastardi senza gloria, Django Hunchained.
In The Hateful Eight c’è tanto di tutta la sua bizzarra ma coerente poetica, in particolare grande potenza visiva, una sceneggiatura dagli incastri millimetrici, uno scoramento definitivo indotto dal ritratto storico (cinico e senza sconti) del cuore di tenebra di un’America costruita da giganti senza paura e senza misericordia. Sì, perché – come è stato rilevato da recensori non infastiditi dal doverlo ammettere – è anche il film più politico di Quentin Tarantino. Il quale partendo dalla “nascita di una nazione” (l’azione è ambientata qualche anno dopo la Guerra di Secessione) parla dell’imprinting di una società brutale dove la giustizia si fa per calcolo (i bounty killer consegnavano i banditi alla forca, ma attenti a quanto avrebbe reso la taglia), dove il razzismo nasce dal tutti contro tutti (bianchi contro neri, neri contro ispanici, nordisti contro sudisti, americani contro stranieri), dove la menzogna serve per costruirsi un’identità rispettabile, dove le alleanze cambiano di continuo in funzione del tornaconto.
Poi c’è l’aspetto cinefilo.
Basti dire che The Hateful Eight, diviso in capitoli titolati come un romanzo, è un western nella prima parte in esterni (una diligenza avanza a fatica inseguita da una bufera di neve nel Wyoming, con il suo carico di gente misteriosa); diventa un thriller teatrale in interni nella seconda parte (quando i protagonisti – nuovi bastardi senza gloria – si studiano tra loro, tutti pronti a premere il grilletto al momento ritenuto adeguato); si permette di introdurre a metà la voce off (in originale è quella dello stesso regista) e ad un certo punto ricomincia dall’inizio per spiegare ciò che fino ad allora era rimasto sconosciuto allo spettatore (con un montaggio da applauso, anche se il medesimo virtuosismo c’era già in Pulp Fiction); termina come un horror splatter dove non ce n’è per nessuno. Senza parlare del formato: Tarantino ha voluto girare in 70 mm, come si facevano una volta i kolossal. Oggi esistono pochissime sale in grado di proiettare in 70 mm, ma lo stesso si coglie la profondità della scena, con la possibilità di avere una visione, negli interni, di ciò che sta facendo nello stesso momento ogni personaggio, come dal vivo a teatro.
Inizio (insistito) su un crocifisso di legno con un tettuccio, piantato lungo il percorso della diligenza inseguita dalla bufera di neve. E proprio da quel crocifisso si ripartirà per riepilogare i fatti pregressi, che erano stati tenuti nascosti allo spettatore, come nei gialli alla Agatha Christie, a cui Tarantino dichiara di essersi ispirato per il plot.
Sulla diligenza ci sono, oltre al cocchiere, un manesco cacciatore di taglie (Kurt Russell) con la sua prigioniera (Jennifer Jason Leigh, candidata all’Oscar come non protagonista) da consegnare nella cittadina di Red Rock perché venga giustiziata. Per strada il mezzo viene fermato da un altro bounty killer, stavolta nero (Samuel L. Jackson), rimasto appiedato ma con qualche cadavere da portare a Red Rock per incassare la taglia. Russell è diffidente, però lo fa salire perché conosce di fama il “collega”. Altro stop e sale a bordo un giovane ex-sudista (WaltonGoggins) che si presenta come il nuovo sceriffo di Red Rock. Ma la tormenta incombe e la diligenza è costretta a fermarsi all’Emporio di Minnie, a metà tra una stazione di posta e un malandato saloon. Minnie e il marito non ci sono, dice ilmessicano che accoglie i viaggiatori. All’interno ci sono già altri ceffi, tra cui un azzimato inglese (Tim Roth), che si dichiara il boia incaricato della città, un mandriano (Michael Madsen), un vecchio generale sudista (Bruce Dern). Ognuno mostra le proprie credenziali di persona rispettabile e Samuel Jackson (che aveva servito nell’esercito dell’Unione) sventola persino una lettera scrittagli di suo pugno da Abramo Lincoln. Ma la tensione è palpabile, tutti pronti con la mano sulla pistola, intanto la Jason Leigh si accorge che è stato messo del veleno nel caffè e non lo dice a nessuno…
L’inizio fatica un poco ad ingranare, poi tutto corre veloce, con scene da trattenere il fiato. Ma chi non riesce a sintonizzarsi e raccapezzarsi – perché ogni situazione rimanda a film famosi, da Ombre rosse a La cosa di Carpenter, passando per gli spaghetti western e naturalmente Sergio Leone con la colonna sonora di Morricone (candidato all’Oscar) – tra fiumi di vernice rossa, eccessi di politicamente scorretto, braccia mozzate, battute irriverenti, è inutile che vada a vedere il film.
Un’ultima notazione la meriterebbe un parallelo tra The Hateful Eight e Revenant, innevati western gemelli (nel non risparmiare nulla ricostruendo un mondo di spietati) ma inconciliabili. Tanto il film di Iñarritu è accademico e algido, altrettanto quello di Tarantino è popolare, pulp e beffardo. Nelle candidature agli Oscar, Revenant batte The Hateful Eight dodici a tre.