(di Andrea Bisicchia) È più semplice essere grati o ingrati nei confronti di un benefattore? La risposta potrebbe sembrare retorica, se non fosse che l’ingratitudine è beneficiaria di molte aspettative.
Duccio Demetrio, già docente di Filosofia dell’educazione, nel volume edito da Cortina: “Ingratitudine. La memoria breve della riconoscenza”, analizza quella che potrebbe essere considerata una colpa morale, tracciandone le vicissitudini, perché convinto che l’uomo, in generale, abbia la memoria corta poiché si dimentica velocemente della riconoscenza, fino a provarne, spesso, sgomento nell’ammetterla. La memoria dei nostri atti, quando non segue le norme morali, può generare vergogna, specie se si evita il riconoscimento a chi ci ha fatto del bene. L’ingratitudine, in simili casi, è una forma di violenza, non solo nei confronti del benefattore, ma anche del beneficiato, tanto che non si capisce se gli ingrati siano gli altri o siamo noi stessi.
Secondo Duccio Demetrio, l’ingratitudine genera turbamenti specie quando, dopo aver ricevuto dei favori, improvvisamente i favoriti ammettono il contrario, a cui fanno seguire lacerazioni, umiliazioni, equivoci, implicazioni morali, rimozioni pubbliche, sfiducia collettiva. Insomma, dietro l’ingratitudine si nascondono ricatti, malversazioni, sofferenze, ma anche strani piaceri dovuti a rivincite, se non a ritorsioni.
Seneca scriveva a Lucilio: “È ingrato chi nega il beneficio ricevuto, ingrato chi lo dissimula, più ingrato di tutti chi lo dimentica”. Demetrio, oltre a fare delle considerazioni sulle “Lettere” di Seneca, si attarda su altre opere del filosofo, come “Il de beneficiis”, elencando le patologie che derivano dall’ingratitudine, che vanno dal tormento allo sminuire i favori ricevuti, confrontandole, nel frattempo, con quanto scriveva Marco Aurelio nei “Ricordi”, dove l’imperatore distingueva tra chi considera il beneficiato un debitore e chi ignora di aver reso un beneficio.
Un fatto è certo, sia la gratitudine che l’ingratitudine hanno sempre a che fare con i ruoli di comando. Demetrio cita non solo filosofi, ma anche poeti come Ovidio, tragediografi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, sostenendo che l’ingratitudine è il filo conduttore delle grandi opere classiche. Inizia con Edipo che ritiene il simbolo dell’ingratitudine, al pari di Giobbe e di Abramo, benché la fede abbia enigmi diversi da quelli del mito, considera Otello un ingrato nei confronti di Jago, avendogli preferito Cassio, ma taccia di ingratitudine anche Lear per non aver riconosciuto la gratitudine di Cordelia, essendosene accorto soltanto quando morirà tra le sue braccia. Come dimenticare l’ingratitudine di Bruto, evidenziata da Antonio durante il suo discorso funebre? Che l’ingratitudine sia più dura del pugnale di Bruto, lo dimostra anche la storia di Prospero nella “ Tempesta”, tradito, non solo dal fratello usurpatore, ma anche da Calibano che si sforzava di rendere un essere sociale.
Come dire che il tragico è fonte inesauribile di ingratitudine, il luogo dove il rimosso continua a esistere, dove i focolai sono inspiegabili, come lo sono l’incesto, le vendette, le scalate al potere, gli omicidi e dove, come sostiene Jaspers: “il tragico appare come un evento che mostra tutto l’orrore dell’esistenza”.
Duccio Demetrio, “Ingratitudine. La memoria breve della riconoscenza” – Raffaello Cortina Editore 2016 – pp 184 – € 13.