Signori, il gusto è servito. Mettersi a tavola come piacere estetico. Ma può esistere anche un’estetica del disgusto?

gusto e disgusto- copertina(di Andrea Bisicchia) Il gusto non appartiene alla categoria dei valori assoluti, perché ciò che lo caratterizza è proprio la variabilità, sia quando si riferisce al cibo, sia quando è in relazione con l’etica o l’estetica. Essendo soggettivo, il gusto non è sottoposto a regole a-priori, poiché, queste, come sostiene Hume, sono prodotte dall’esperienza, e, quindi, vanno ritenute a-posteriori. Durante il Settecento si sviluppò una ricca trattatistica dedicata all’argomento, tanto che Hume, nella sua Estetica, si sforzò di trovare un fondamento alle regole del gusto.
Maddalena Mazzocut-Mis, specialista dell’estetica settecentesca, ha curato il volume: “Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto”, Cortina Editore, nel quale, oltre al suo intervento, vanno segnalati i saggi di Paola Vincenzi, Claudio Rozzoni, Serena Feloj, Michele Bertolini. Si tratta di docenti e di ricercatori specialisti negli studi dell’estetica del Settecento, pertanto i loro contributi, pur legati al cibo, spaziano nel campo dell’arte, della bellezza, del sentimento, dello spettacolo, fino a chiedersi, come fa Bertolini, se sia possibile una estetica del disgusto.
Mi vengono in mente: “Critica del gusto” di Galvano Della Volpe, un approccio di carattere strutturalista al tema trattato, “Le oscillazioni del gusto” di Gillo Dorfles, che cercò di decifrare le “oscurità”, le trasformazioni stilistiche e percettive dell’arte contemporanea, “Critica sociale del gusto” di Pierre Bourdieu, per il quale il gusto è concepito come un tipo d’arma particolare, usata da alcuni gruppi (intellettuali, artisti) per avere il sopravvento su altri. Cito questi piccoli classici per fare capire meglio i lavori raccolti nel volume, aperti a svelare le molteplici componenti del gusto, che vanno dalla sfera corporea a quella dei sensi, “dal piacere alto al piacere basso”, secondo la distinzione platonica, a dimostrazione della polisemanticità e ambiguità del gusto.
È chiaro che si può gustare il cibo, così come si gusta un’opera d’arte, forse potranno essere diversi gli ingredienti, il dosaggio, gli elementi chimici, solo che il piacere palatale può, anch’esso, diventare un piacere estetico. Però, come il piacere può rovesciarsi in dispiacere, alla stessa maniera, il gusto può rovesciarsi in disgusto, per diventare kitsch.
Se poi applichiamo la categoria del gusto alla spettacolarità, come non fare riferimento ai banchetti cinquecenteschi e secenteschi, con i loro apparati, le loro scenografie, gli arredi, i costumi, attorno ai quali, nacquero una serie di trattati, come quello di Antonello Scappi: “Opera”(1570), punto di riferimento per gli studi successivi, a cui dobbiamo anche la nascita della figura del cuoco artista, oggi declassata in tanti programmi televisivi, fino alla noia.
In tutti i tempi si è cercato di far convivere l’estetica con la buona tavola, favorendo un legame intimo tra filosofia e gusto, oltre che tra gusto ed etica. Per esempio, alla domanda, se sia più disgustoso Filottete, col suo piede marcio per la cancrena, o Ulisse, il grande simulatore che cerca di utilizzare, con l’inganno, il “disgustoso” possessore dell’arco di Eracle, per motivi prettamente politici, cosa rispondere?

“Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto” (a cura di Maddalena Mazzocut-Mis), Cortina Editore, 2015, pp 206 € 19