MILANO, giovedì 11 dicembre ●
(di Paolo A. Paganini) Attori, razza maledetta. Rigoletto urlava contro i cortigiani: vil razza dannata! La frase musicale venne poi, via via, estesa nel tempo a usurai, politici, ruffiani, maneggioni eccetera. Forse per dimenticanza gli attori ne rimasero fuori. Ma già per conto suo la Chiesa li aveva condannati ad essere sepolti, prima dell’alba, in terra sconsacrata. E fortuna che non sono stati condannati al rogo come le streghe. Comunque fecero passare poca differenza fra i teatri e i casini.
In un chiarificatore bando veneziano del 1778, l’Inquisitore di Stato, Antonio Maria Tiepolo, ordinava: “Stasera se verze la porta del teatro, ma no se verze la porta al postribolo. Recordeve che vu altri comici sè persone in odio a Dio Benedeto, ma tolerai dal Prencipe per pascolo de la zente che se compiase delle vostre iniquità… Andè là, operè da Cristiani, con tuto che siè comici.”
Attori, e artisti in genere, sono stati spesso associati a epiteti, infamanti o mortificanti, legati a vizi dell’anima e del corpo, come sregolati, viziosi, pericolosi per la morale di vergini e fanciulli et cetera. Tante etichette si sono perse sulle strade del tempo. Ma la Storia non dimentica i propri peccati e gli orrori dei pregiudizi, contrabbandati per virtù. Almeno due definizioni, con la forza fasulla dei luoghi comuni, facili dogmi di tanti cretini (ma anche con una punta di autocompiacimento d’ambo le parti), hanno resistito al passar di tutte le mode: asociali e disaffettivi. Asociali, perché vivono nella torre eburnea della loro arte bastando a se stessi; disaffettivi perché, nell’empireo di ombelicali contemplazioni, dimenticano, o ignorano, figli, compagni, amanti e devoti famigli, per dedicarsi, con ogni fibra della loro anima, alla pagana ed esclusivista adorazione di una divinità falsa e bugiarda: l’Arte.
Le cose, ovviamente, non stanno così, ma il dibattito sulla natura di questo strano animale, l’Attore, pur sempre ammantato, con la fasullaggine delle definizioni, da letterari aloni di genio e sregolatezza, rimane tuttora un mistero insondabile. Si fa fatica soprattutto a capire il senso di quella sua solitudine, di quel suo studio diuturno, solitario, totalizzante, per inseguire, approfondire, appropriarsi di quei fantasmi di carta, che poi riverserà su platee ignare e indifferenti.
L’argomento, insopportabile come una ferita su un nervo scoperto, è stato trattato da Ingmar Bergman in un film del 1978 con Liv Ullmann e Ingrid Bergman, “Sinfonia d’autunno”, che ora Gabriele Lavia porta in scena in versione teatrale, con l’interpretazione di Anna Maria Guarnieri e Valeria Milillo, nei ruoli di madre e figlia.
“La solitudine assoluta, maledizione di noi teatranti”, è stata la concisa definizione di Lavia, consentendo a noi, come tributo di stima e di affetto, di accennare alla parte storica di questa “maledizione”, descritta sopra.
Ed ora, questa solitudine, nella bella e sofferta regia di Lavia, algida come il dolore, ti salta addosso, ti stringe alla gola, in un’angoscia – bergmaniana – di quasi due ore senza intervallo, nella sala del Piccolo Teatro di Via Rovello.
C’è una madre, Charlotte, celebre pianista, che ha sacrificato tutto, famiglia, affetti, amore, figli per rivolgersi solo all’Arte, ad essa dedicando tempo, onori, illusioni, tristezze e sofferenze, e cercando, forse, in essa il perché dell’esistenza e di se stessa. Dopo sette lunghi anni, torna a casa della figlia Eva, adulta, sposata e madre disperata, che da poco ha perso tragicamente il figlio di quattro anni, e che ora vive in una landa desolata delle campagne svedesi con il marito e con la sorella invalida. L’incontro sarebbe dovuto essere un’agape di pace e di amore. Si risolve in un’atroce disamina, nella quale la figlia riversa sulla madre artista tutto il dolore procuratole da quella sua assenza, non scelta di vita, ma trascuratezza colpevole degli obblighi verso la famiglia, in nome della quale Charlotte avrebbe dovuto rinunciare a ogni altra aspirazione.
Naturalmente le accuse dell’una e le ragioni dell’altra hanno la stessa valenza. Le due categorie, dell’Arte e della Famiglia, sono forse inconciliabili.
“Venuta a sera… mi spoglio di quella veste cotidiana, piena di fango e di loto e mi metto panni reali e curiali… e mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui… sdimentico ogni affanno… non mi sbigottisce la morte…” L’annotazione diaristica del Machiavelli è bella, ma è letteratura. Non sempre è possibile spaccarsi in due, e vivere di fango e loto e poi, come se niente fosse, di abiti reali e curiali. Per Bergman è impossibile. Da qui la tragedia della solitudine, del dolore, dell’asocialità, della sofferenza e di una totale, irriducibile incomprensione.
Charlotte se ne andrà, affidandosi ormai solo all’artrosi e ai Preludi di Chopin. Eva rimarrà a macerarsi nella sua casa solitaria, in una sconsolata e inutile ricerca di sé.
Testo difficile, problema complesso, argomento in sospeso. Che qui si allarga in un gioco d’inquietanti trasposizioni, in un dramma che coinvolge la stordita solitudine dell’uomo moderno, dibattuto tra il deserto dell’anima e un facile gorgo di fantasmiche consolazione globali.
Grandi applausi alla fine per una grandissima Anna Maria Guarnieri, per una intensa e stupefacente Valeria Milillo, e per Danilo Nigrelli (marito di Eva) e per Silvia Salvatori (la figlia storpiata dal male). E un doveroso plauso anche alla protagonistica colonna sonora di Giordano Corapi.
Si replica fino a domenica 21.
Solitudine e sofferenza dell’artista, secondo Bergman e Lavia, con una lancinante Anna Maria Guarnieri
11 Dicembre 2014 by