SPECIALE TEATRO 2) Appesa per un dito a 10 metri da terra, mentre un cagnone nero miagola e ragiona con Spinoza

4.8.16 collage castellucciVENEZIA, giovedì 4 agosto ► (di Paolo A. Paganini) Lei è lassù, a una decina di metri, appesa per un dito a un cavo d’acciaio. In basso il pubblico, a naso in su, mentre un nero cagnone, un pacioccone terranova di sette anni, si aggira fra le gambe della gente bofonchiando ragionamenti filosofici, o dialogando con la donzella appesa, strologando un po’ sui massimi sistemi, un po’ su più prosaici problemi esistenziali, un po’sulla realtà o disquisendo sulla metafisica della vita. Quando poi il cagnone non ne può più, si mette a miagolare.
Intanto, da un pertugio ricavato sul fondo a sagoma di donna, dopo che da lì son passati gli spettatori a uno a uno, si aggrumano corpi nudi, come un brulicante, attorcigliato verminaio, prima di diventare un assieparsi di veli neri che prendono fantasmiche sembianze e si protendono minacciose verso le umane genti, che non sanno cosa pensare, mentre, or sì or no, sale dal fondo un consolatorio coro di angeli.
Ci si chiede se questa laboratoriale performance ad opera di Romeo Castellucci, alla Biennale Teatro di Venezia, vicino alle Tese, nei pressi della magica e suggestiva laguna dell’Arsenale, sia un profondo e imperscrutabile divertissement, troppo profondo per noi mortali, o sia solo lo sberleffo d’uno zuzzurellone, tanto per non prendere troppo sul serio questa nostra valle di lacrime, già di per sé dura di suo.
4.8.16 foto papIn realtà, il cinquantaseienne Romeo Castellucci, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, conosciutissimo in tutto il mondo come autore di un teatro più o meno sperimentale, ha una singolare e spesso affascinante concezione di teatro (?), nel senso di un totalizzante impiego di tutte le arti, integrate fra di loro, non limitate o privilegiate dalla lettura, ma aperte alle più libere e umorali interpretazioni, come possono essere la musica, la pittura, la scultura (dove ciascuno ci mette del suo nel godere o giudicare).
Qui, questa performance, dal titolo “Ethica”, nata sempre a Venezia, in un laboratorio del 2013, e ora proposta come opera rifinita e conclusa, trae spunto da uno dei cinque libri del filosofo olandese Spinoza (1632-1677) “Sulla natura e origine della mente”. In una quarantina di minuti, sempre con la poveraccia appesa per un dito a dieci metri da terra e con il cane ragionatore e miagolante a scodinzolare fa la gente, il pensiero di Castellucci poggia essenzialmente su una filosofia drammaturgica intesa come rivelazione dell’artista, il cui ruolo “è di mettere lo spettatore nella condizione di scoprire lo sguardo e la propria capacità di vedere…”, cioè lo sguardo come consapevolezza critica d’un proprio giudizio e come concezione fondante della realtà.
“Sta allo spettatore capire, orientarsi, scegliere, collegare i mille sottili fili che compongono questo astratto e complesso quadro”, recita il programma di sala.
Così stanno le cose. E personalmente sono tuttora qui a cercare di collegare quei mille sottili fili…
Pubblico non entusiasta, ma attento, tollerante e comprensivo. Qualche applauso alla fine, mentre la sciagurata, che è Silvia Costa,  se ne sta ancora lassù, rassegnata, reclinata e immobile.
E intanto il nero terranova concludeva le proprie speculazioni filosofiche, e salutava affettuosamente la fanciulla: “Eh, noi siamo l’unica coppia al mondo che non potrà mai unirsi, generare. Ma tu cosa fai lassù?…”
Già.