SPECIALE TEATRO 3) Un’irridente parodia su Bob Wilson. Ma, ridendo e scherzando, che sofisticata lezione di teatro!

5.8.16 collage bob wilsonVENEZIA, venerdì 5 agosto ► (di Paolo A. Paganini) Già il lituano “Gabbiano”, di Oskaras Koršunovas, ed ora “Bob”, di Anne Bogart, sarebbero valsi da soli la presenza in questa pletorica e variegata Biennale veneziana 2016. Tanto per parlare di numeri un sintetico ma eloquente bilancio elenca: 12 spettacoli; 17 workshop; 4 “residenze”; 18 incontri; 13 Open Doors. Il tutto in 20 giorni.
Ma veniamo, dunque, a questo ultimo “Bob”, interpretato da Will Bond. Il testo, ancorché di vetusta stesura (è del 1998), gode di un’ilare e non arrugata freschezza. È un apoteosico omaggio al settantacinquenne Bob Wilson. Cin-cin.
Lo spettacolo/monologo di 90 minuti, sempre alle Tese, all’Arsenale, si rivolge a due tipi di spettatori: quelli che san tutto di Bob Wilson e quelli che non sanno niente di Bob Wilson (o che non ne hanno mai capito niente).
A questi ultimi, in superficie, si rivolge l’assurdo Will Bond, un giocoliere della parola, un illusionista di immagini fonetiche, un magico rievocatore di miracoli scenici, come un divertito Prospero della shakespeariana “Tempesta”. Con un’impudica parodia, fa il verso dei vezzi intellettuali di Bob Wilson, quasi una sbeffeggiante satira d’irresistibile comicità, con la quale sembra mettere alla berlina il geniale regista, coreografo, pittore, drammaturgo statunitense, uno dei massimi artefici dell’evoluzione del teatro moderno.
Ne rievoca la giovinezza, lo scetticismo del padre (che diventerà poi un suo commosso sostenitore), ne illustra le stralunate – e vincenti – concezioni poetiche, ne smonta gl’intimi ingranaggi affrontando impavido complesse elucubrazioni filosofiche sui concetti spazio/tempo, sogno/realtà, parole/immagini, ne dimostra i trucchi scenici illustrando le pause calcolate in secondi, gli esasperati immobilismi, i prodigiosi giochi di luce, gli esaltanti violini wagneriani…
E giù risate, perché Will Bond dice delle cose serissime ma con l’alta, giocosa allegrezza d’un aquilone che svolazza felice nei cieli della fantasia. Nessuno gli crede, nessuno lo capisce. D’altra parte si sa: se non si vuole essere creduti basta dire sempre la verità. E, comunque, ora, una risata non si nega a nessuno. Eppure ci sono immagini di fulgente tenerezza, metafore di seducente filigrana, definizioni da lasciare commossi a bocca spalancata, come quando viene descritto, con tenera e stupita ammirazione, il personaggio/attore, soffermandosi sul suo viso, maschera espressiva dei sentimenti, mentre il palcoscenico è la maschera della sua mente, o quando spara mortali condanne, come “il naturalismo ha ucciso il teatro”, o come quando spiega le bellezze “cinematografiche” della retina umana, capace di trasformare in movimento le 24 immagini al secondo di una proiezione (e scomponendo le statiche immagini a una a una, che solo nel proiettarle in successione daranno poi l’illusione del movimento, ecco spiegata la fissità o le scene in successione o in rallenty delle regie di Bob Wilson). E tutto questo sempre per ridere, non sapendo gli ignari spettatori che, in realtà, quanto veniva detto in scena era tutto desunto dalle stesse parole che Wilson ha pronunciato nel tempo, in scritti, convegni e interviste.
Ma per l’altra categoria di spettatori, quelli che san tutto (ammiratori o fanatici che siano), è stato un vero godimento dell’anima, una trionfale gioia dell’intelligenza, godendo perfino di quel centro scenico, una geometrica scacchiera di nove quadrati, a tre e tre, con soli due oggetti di scena opposti e contrastanti, un tavolino con una bottiglia di latte e una sedia. Spostando gli oggetti nei quattro angoli della scacchiera, ecco creata una tipica scenografia di Bob Wilson, ortogonale e diversamente prospettica, a seconda dello spostamento del centro ottico.
E così, ridendo e scherzando, questo prezioso, ridanciano e raffinato spettacolo è diventato un alto e sofisticato programma di didattica teatrale, una lezione magistrale, nel contempo serissima e irridente. Bastava decidere in quale angolo della prospettiva mettersi.
Applausi gaudenti alla fine per lo scatenato Will Bond, uno straordinario mistificatore della parola. Aveva esordito dicendo: “Non voglio parlare, odio la parola, io amo fare…” Oddio, ha parlato di seguito “solo” per novanta minuti.