VENEZIA, domenica 22 luglio ► (di Paolo A. Paganini) “Spettri” (1881) di Ibsen. Dramma della dissolutezza, dell’ipocrisia e della corruzione. Sotto la facciata del perbenismo e della rispettabilità, non si salva nesuno. Tanto o poco, i personaggi son tutti marci.
È marcia, per quella sua vita di menzogne, Elena, vedova del molto rispettabile e “virtuoso” Alving, lui uno scellerato, lei un’ipocrita.
È marcio il pastore Manders, ottuso e conformista, ch’ebbe una storia con Elena, e poi, pavido e conformista, la rispedì al marito.
È marcio il falegname Engstrand, svergognato dal pastore Manders: sposò per denaro una cameriera, sedotta da Alving, dal quale ebbe Regina, ora domestica in casa Alving, e e che finirà in una specie di bettola-bordello organizzato da Engstrand.
È marcio, infine, Osvald, non per sua colpa ma per tabe ereditaria, passatagli dall’irreprensibile Alving. Ora, tornato da Parigi, è condannato a una fatale demenza precoce, fino a morirne di lì a poco. Non prima di aver pronunciato la memorabile frase: mamma, dammi il sole. Che potrebbe anche voler dire: mamma, dammi la verità, e che invece sarà la morfina, quando alla fine soffrirà troppo per continuare a vivere. “Gl’infami avoli tuoi di tabe marcenti o arsi di regal furore...”, dirà Carducci della degradazione morale di padri snaturati (Sonetti)…
Libero amore, incesto, eutanasia, menzogne, vigliaccheria, ipocrisia: gli “spettri” di Ibsen, cancro della marcia famiglia Alving, che, tra fatalità o condanna divina, finirà in frantumi, dissolvendosi, anche materialmente, in fuoco e fiamme, in questa maledetta vita d’inferno.
Il nostro preambolo fa da approssimativa base all’allestimento, visto all’Arsenale, alle Tese dei Soppalchi (un’ora e 35 senza intervallo).
Scardinare, stravolgere, frantumare, dissestare, smontare, distruggere sembrano ormai l’esercizio sistematico metodico scientifico di registi e adattatori. Non si sottraggono questi “Spettri”, che Leonardo Lidi, con cinica, crudele e scanzonata drammaticità, ha rappresentato come un puzzle, con scene e quadri che non seguono una precisa sintassi drammaturgica. Inoltre, gli stessi interpreti sono quattro, ma disinvoltamente si spalmano su sei personaggi, scombussolando non poco il tormentato dramma di Ibsen, e la stessa comprensibilità degli spettatori.
E così Michele Di Mauro: è Elena e Alving, e qua e là qualcos’altro. Christian La Rosa: è lo sciagurato figlio demente, e amen. Mariano Pirrello: è il falegname, il pastore Manders, e qualche altro personaggio con scambio di ruoli e sfuggito alla nostra contabilità. Matilde Vigna: è la domestica Regina, figlia presunta del falegname (e fors’anche la stessa madre sedotta).
In questo pastiche di ruoli, spesso faticosamente identificati con passaggi di parrucca biondo cenere, o con sostituzione di brache, lo sconcerto – sperimentale, sperimentalissimo – è di per sé anche divertente, soprattutto perché gli stessi interpreti, con puntiglioso impegno, non si prendono troppo sul serio. Fino a un eroico esercizio di masochismo. Alla fine, costretti (su una panchina di ferro, e la scena è tutta lì) a subire una decina di minuti di doccia, simbolo norvegese di quella “pioggia del diavolo”, o, ad libitum, “del Signore”, o simbolo purificatore, o pioggia redentrice, a cancellare peccati, vergogne e misfatti.
Non sarà proprio così. Regina muore annegata, Osvald, trapassando, se ne va in mutande. E tutto si perde in un precipizio senza speranza. Ma con tanti applausi.
Si replica anche stasera domenica e domani lunedì 23.
Spettri in ordine sparso a turbare, a sconvolgere e a condannare gli sciagurati personaggi del dramma di Ibsen
22 Luglio 2018 by