(di Patrizia Pedrazzini) Un agente di colore, nell’America degli anni Settanta, ha l’idea, il coraggio e la faccia tosta di infiltrarsi niente meno che nel capitolo locale del Ku Klux Klan. E non solo ci riesce (basta una telefonata), ma ha anche la fortuna di arrivare ai vertici dell’organizzazione, mettendo nel frattempo le mani sul progetto di un attentato.
Una missione, più che impossibile, incredibile.
Tuttavia la vera, autentica storia di Ron Stallworth, primo detective afroamericano a entrare nel Dipartimento di Polizia di Colorado Springs, nonché autore – insieme alla necessaria controfigura bianca, l’altrettanto determinato agente (di origini ebraiche) Flip Zimmerman – dell’epica impresa. Che Stallworth non a caso si deciderà a raccontare, in un libro, di lì a oltre vent’anni, solo dopo essere andato in pensione.
Questa la trama, a metà fra il drammatico e l’assurdo, di “BlacKkKlansman”, ultimo lavoro del sessantunenne Spike Lee, regista fra i più impegnati sul fronte del razzismo, della violenza, delle droghe, dei rapporti interrazziali. L’autore di “Fa’ la cosa giusta”, “Malcolm X”, “La 25a ora”, “Inside Man”, “Miracolo a Sant’Anna”, “Oldboy”.
Il regista dei monologhi esplicativi, dei titoli di testa che si pongono come veri e propri minifilm, dei virtuosismi della macchina da presa (a partire da quello degli attori posizionati sul carrello e fatti scivolare dando l’impressione di un movimento sognante), dell’utilizzo iperrealista della fotografia. Il regista della rabbia nera, della provocazione, della militanza. Tacciato a volte di grossolanità dagli stessi afroamericani, che rimprovera a Tarantino di usare troppo spesso nei suoi film il termine “nigger”, che se la prende con Whoopi Goldberg, rea di mettersi le lenti a contatto azzurre.
C’è tutto il Lee che si conosce anche in quest’ultima fatica, che si apre sul monologo fortemente razzista recitato con livore da un Alec Baldwin (guarda caso l’attore americano che incarna per eccellenza la parodia di Donald Trump) al limite del disturbato. Per raggiungere il momento più alto nel racconto, affidato alla voce e alla grazia del grande, oggi novantunenne, Harry Belafonte che – il viso ancora bello consumato dagli anni – rievoca, nei panni del giudice Jerome Turner, il drammatico linciaggio di un nero avvenuto nel 1917 a opera di bianchi. Mentre, in parallelo, scorrono le scene di “Nascita di una nazione”, il film che nel 1915 David Griffith ambientò al tempo della Guerra di Secessione, e che rimane tuttora una delle pellicole più strumentalizzate dal razzismo americano.
Perché a Lee la storia di Ron Stallworth serve, al di là della vicenda in sé, per mettere ancora una volta il dito nella piaga. E raccontare, sì, un momento della storia e della cultura afroamericana (con le sue musiche, il suo stile, le battaglie dei suoi attivisti, i suoi vestiti e le sue acconciature), ma anche e soprattutto per spostare il discorso dagli anni Settanta a quelli attuali. E mostrare, cronaca alla mano, come l’ardimentoso poliziotto di Colorado Springs abbia anche vinto, forse, la sua piccola battaglia, ma la guerra sia ancora tutta da combattere. Così il regista di Atlanta, che al fioretto preferisce decisamente il machete, non si accontenta di chiudere il film con la bella scena della croce che brucia inquietante nel buio della notte, circondata da minacciosi cappucci bianchi. Lee va oltre, deve spiegare, far capire. E allora, poco prima dei titoli di coda, ecco gli scontri, fra neonazisti e antirazzisti, di Charlottesville, in Virginia, del 2017, e le parole del Gran Maestro del Klan David Duke, e quelle di Donald Trump. Caso mai il messaggio non fosse già arrivato abbastanza chiaro.
Ma c’è anche un altro mezzo, piuttosto inedito per lui, sul quale il regista lavora: l’ironia. Un mix di umorismo, leggerezza, situazioni paradossali, ritratti al limite della caricatura che, se da un lato si rivela perfetto per accompagnare degnamente la folle avventura dei due agenti, dall’altro centra, neanche tanto per assurdo, l’effetto di smitizzare e ridicolizzare il temibile KKK, che appare quanto mai piccolo, goffo e un po’ risibile nelle sue pretese di superiorità della razza bianca nel mondo.
John David Washington (figlio di Denzel, forse l’attore preferito di Lee), è un abbastanza anonimo Ron. Decisamente migliori Adam Driver, nei panni di Flip, e Topher Grace in quelli, melliflui e a maggior ragione preoccupanti, del grande capo Duke. Regia e montaggio, inevitabilmente, di grande forza. Come le musiche: quale sfondo sonoro degli incidenti Charlottesville il regista ha voluto un brano di Prince, “Mary don’t you weep”, canzone religiosa di inizio Novecento che il cantante aveva registrato nei primi anni Ottanta.