(di Patrizia Pedrazzini) Eccolo, dunque, il film galeotto. La spy story a seguito della quale una furibonda Angelina Jolie avrebbe chiesto, e ottenuto, il divorzio dal marito Brad Pitt, reo di aver intessuto un flirt, durante le riprese, con la collega, e protagonista femminile, Marion Cotillard. Esattamente come undici anni prima era accaduto ai “Brangelina” sul set di “Mr & Mrs Smith”.
Un flirt che i due si sono ben guardati dall’ammettere (ma se è per questo nemmeno lo hanno smentito), la cui notizia però – vera o presunta o falsa che sia – non è certo passata sotto silenzio. Anche se la Cotillard non ha perso occasione per sottolineare che aspetta un figlio, il secondo, dal compagno, l’attore e regista francese Guillaume Canet, e che a Brad e Angelina augura solo pace. Comunque sia, anche questo è “Allied – Un’ombra nascosta”, l’ultima attesa prova di Robert Lee Zemeckis.
Casablanca, 1942 (ma i nostalgici di Bogart dormano sonni tranquilli: “Suonala ancora, Sam” non abita qui). Max Vatan, spia canadese, e Marianne Beauséjour, spia francese, si incontrano per una missione: farsi invitare a un ricevimento e uccidere l’ambasciatore tedesco. Ce la faranno, e alla grande anche, ma tra i due nascerà, incauto e imprevedibile come non mai, l’amore. Max e Marianne si sposeranno, andranno a vivere a Londra, avranno una bambina. Finché un giorno il Comando manderà a chiamare Max e gli dirà che Marianne è una spia tedesca. La mente può anche accettare, ma il cuore no. Che sarà di lei? E che cosa è vero?
Allora. Primo: “Allied” non è una spy story, o meglio lo è, ma solo di facciata. In realtà è la storia di un amore, semplice, lineare, pulita, adattata a un determinato periodo storico, complicata dalle storie di vita dei due protagonisti, esaltata da un finale che più romantico e drammatico non si potrebbe, ma che rappresenta anche l’unico momento veramente intenso e “vero” di tutto il film.
Secondo: “Allied” non è un film realistico, e di questo ci si rende conto da subito. Casablanca è, esteticamente, splendida. Gli abiti delle donne, e degli uomini, sono a dir poco ammalianti. Come le acconciature, le coppe di champagne, le sigarette che escono da eleganti astucci d’argento. Persino i due nazisti messi lì, quasi per caso, ma in sgargiante uniforme, a ricordarci che siamo in piena Seconda Guerra Mondiale, fanno la loro bella figura. Certo, il mondo delle spie è, nell’immaginario collettivo, quanto meno sontuoso. Il che però non vuol dire fasullo.
Terzo: “Allied” non è credibile. A parte l’assurdo salto iniziale col paracadute del protagonista che atterra sulle dune (alla “Mission Impossible”), come non sorridere davanti alla scena nella quale Max e Marianne fanno per la prima volta l’amore in macchina nel deserto? Una scena di per sé a dir poco perfetta: belli e in parte loro, bello e convincente il Sahara, bellissimi la fotografia e i colori, tutti giocati sulle sfumature del beige e dell’ocra. E allora che bisogno c’era di scatenare, nel bel mezzo, una violenta tempesta di sabbia che va ad abbattersi, sbatacchiandola, sulla già instabile automobile? E, ancora, perché far nascere la bambina su una lettiga nella notte mentre Londra crolla sotto i bombardamenti delle V2?
In realtà, “Allied” ha tutte le carte in regola per sembrare un film esagerato, stonato, che promette e non mantiene. Che sarebbe potuto essere e che non è stato. E se invece proprio l’apparente ingenuità, l’assurdo, il non reale, l’irraggiungibile, fossero il modello e l’obiettivo dell’eclettico Zemeckis? Il quale, lo ricordiamo, ha firmato non solo quel capolavoro assoluto, storia e favola della vita, che è “Forrest Gump”, ma anche i tre “Ritorno al futuro”, e “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, “Cast Away”, “Polar Express”, “La leggenda di Beowulf”, “A Christmas Carol”, “The Walk”. Simbolismo, senso dell’irrealtà, “depistaggi”.
Certo, alla fine si ha l’impressione che “Allied” abbia in sé qualcosa di non completo, di non finito, di onirico, in certi momenti. Ma Zemeckis non è Spielberg, e la sua guerra non è quella del soldato Ryan. E allora, perché “Allied” non potrebbe essere semplicemente la cristallizzazione dell’eterna parabola dell’amore che vince su tutto e su tutti: sulla mente, sulla guerra, sugli amici, sul mondo, persino sui suoi stessi protagonisti?
E allora parliamone, di questi protagonisti. Perché Max e Marianne, o meglio Brad Pitt e Marion Cotillard sono, in questo film, a dir poco perfetti. Lui, solo un poco invecchiato, solo un poco appesantito, nel complesso “normalizzato” quanto basta per essere almeno credibile come spia, dispensa la propria bellezza con un pudore che la giovinezza, in passato, non gli consentiva. Ma bastano un’occhiata o l’accenno di un sorriso per chiarire, caso mai ce ne fosse bisogno, come il trascorrere del tempo non su tutti lasci segni indelebili.
Quanto alla Cotillard, è un distillato di seduzione francese allo stato puro. Sicura, libera, indipendente, determinata. Amante, madre, spia, eroina. Senza smancerie e senza soggezioni. E va da sé che, a questo punto, il fatto che sia anche bella rappresenti solo un valore incidentalmente aggiunto.
Niente da dire: un gran bella coppia. Impensabile che i pettegolezzi hollywoodiani li potessero risparmiare.