Sport estremo, brivido, azione. Ecco l’adrenalinico “Ride”, metafora dell’apparire per essere. Per social-dipendenti

(di Patrizia Pedrazzini) “Ride”, primo lungometraggio dell’italiano Jacopo Rondinelli, è un film “in bilico”. Di quelli che iniziano con tutte le caratteristiche del reale, o quanto meno del realistico, si fanno quindi, man mano che la narrazione prosegue, sempre più oscuri e immaginari, e finiscono con un punto di domanda, al quale lo spettatore può, tutto sommato, dare la risposta che meglio crede.
Racconta la strana storia di due amici, Kile e Max, fanatici di sport estremi, percorsi acrobatici in bicicletta e scalate a ponti e grattacieli, che realizzano insieme le rispettive imprese, filmandosi a vicenda e postando le loro prodezze su Internet. Un giorno ricevono un messaggio da una misteriosa organizzazione, Black Babylon, che propone loro una non meglio precisata gara di downhill, la discesa a perdifiato, in bicicletta, su ripidi pendii e sentieri di montagna. In palio ci sono 250.000 dollari, e i due sono senza un soldo.
Dapprima coinvolgente e tutto sommato “normale”, la corsa si rivelerà presto una sfida estrema per la sopravvivenza. All’ultimo respiro e all’ultimo sangue. Fra “cavalieri neri” che evocano i “boss” di tanti videogiochi, spietate assassine camuffate da fanciulle in pericolo, echi di massoneria e messe nere. Il tutto ripreso dalle telecamere GoPro che i due hanno sui caschi e sulle biciclette. Mentre i circuiti di sorveglianza e i droni dell’organizzazione (che è poi il “Grande Fratello” della situazione) li tengono sotto continuo monitoraggio.
Ambientato sui monti del Trentino, sostenuto da una colonna sonora a dir poco incalzante, convulso, frastornante, adrenalinico, sicuramente più “americano” che italiano, il film di Rondinelli (nato da un progetto di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, autori e registi di “Mine”) si pone, attraverso uno spasmodico mix di azione, sport, brivido e tensione, come una sorta di metafora della concezione, sempre più diffusa, dell’apparire per essere. Per cui i due protagonisti, perfettamente e totalmente calati nel mondo dei social media (senza i quali nemmeno esisterebbero) sembrano sì rifiutare il sistema e vivere la loro vita fuori dagli schemi canonici e perennemente sulla linea di confine con la legalità, ma si tratta di una ribellione apparente, fasulla come i filmati con i quali si ritraggono, in quanto totalmente gestita fuori e al di là della loro volontà. Sicché, come evidenzia lo stesso regista, alla fine si capisce che sono loro le prime vittime del sistema, in quanto ne hanno bisogno proprio per sentirsi suoi oppositori. E non è un caso che il film, di minuto in minuto, fino all’inquadratura finale, acquisti sempre più le fattezze di un videogame.
Con influenze, tuttavia, televisive e cinematografiche precise, a partire dalle serie tv “Lost”, per l’ambientazione della vicenda oscura in un luogo naturale, e “Black Mirror”, per quanto riguarda il ricorso alle più avanzate tecnologie, l’ossessione per i social e lo schermo nero dal quale i due ricevono dall’organizzazione informazioni e direttive (e sul quale scorrono le immagini delle loro vite a torto e illusoriamente credute “private”). Schermo che appare, all’occorrenza, in momenti e luoghi diversi della gara, sorta di grande parallelepipedo nel bel mezzo di un bosco o su un pendio, e che tanto rimanda all’epico monolito di “2001: Odissea nello spazio”.