“Steve Jobs”, l’uomo che rivoluzionò l’informatica. Da Oscar? Ma, più che un film, è un’elegante opera teatrale in tre atti

<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<(di Marisa Marzelli) A cinque anni dalla morte di Steve Jobs (1955-2011) e dopo il poco soddisfacente Jobs interpretato nel 2013 da Ashton Kutcher, ecco ora una seconda pellicola sul co-fondatore della Apple, diretta dal regista inglese Danny Boyle (otto Oscar vinti con The Millionaire).Steve Jobs non è un tradizionale biopic, è una lettura soggettiva del personaggio, un quadro e non una fotografia. Ma non riesce a catturare nel ritratto la personalità sfaccettata e contraddittoria dell’uomo che ha rivoluzionato l’informatica, anche se ci prova con eleganza. Steve Jobs (candidato a due premi Oscar: miglior attore Michael Fassbender, migliore attrice non protagonista Kate Winslet) ha una struttura narrativa divisa in tre distinti segmenti, come tre atti. E infatti potrebbe essere un’opera teatrale. Prevale il parlato sull’immagine, il significato astratto scavalca il realismo.
Le location sono tutte a San Francisco, cuore della Silicon Valley, culla della rivoluzione digitale. Atto primo (girato in 16 mm.) ambientato nel 1984 in un auditorium, presentazione del Macintosh; atto secondo (girato in 35mm.) nel 1988 all’Opera House di San Francisco, nascita del sistema operativo NeXt – Jobs regola i conti con John Sculley (Jeff Daniels) –; atto terzo (girato in digitale) nel ’98 nella futuristica Davies Symphony Hall, lancio dell’iMac. Ogni segmento, di 40 minuti, è ambientato dietro le quinte della presentazione ufficiale del prodotto. Jobs sta per andare in scena davanti alla platea di azionisti e invitati, ma continui inciampi e conflitti con collaboratori, ex-amici, famigliari e giornalisti lo obbligano a discutere d’altro: problemi tecnici, rapporti personali, compromessi che non vuole accettare.
Il film inquadra dunque Steve Jobs in uno contesto di rappresentazione, di messa in scena del personaggio. Nell’84 il computer da presentare al pubblico non riesce a dire “hello” come vorrebbe Jobs e come non riescono a fare i programmatori, in più deve tenere a bada l’inviperita ex-fidanzata perché lui si rifiuta di riconoscere la figlia Lisa. Nell’88 si confronta e si vendica di John Sculley, accusato di averlo fatto cacciare dalla Apple perché il Mac aveva venduto molto meno della cifra stimata. Nel ’94 l’iMac sta per essere lanciato ma non è pronto.
Scaltro, arrogante, manipolatore, forse anaffettivo, Jobs tiene a bada tutti, bleffa e ottiene ciò che vuole. Ha due ossessioni: mantenere il controllo su tutto e la paura di essere rifiutato.
Quando Steve Jobs morì a soli 56 anni fu celebrato come una rockstar. Poco dopo uscì e vendette milioni di copie la biografia (autorizzata) di oltre 500 pagine dedicatagli da Walter Isaacson. A quest’ultima si rifà liberamente Aaron Sorkin, autore della sceneggiatura del film, per la quale ha vinto il Golden Globe ma non è stato candidato all’Oscar. Sorkin è il nome chiave per capire l’impostazione del film. Infatti è lui lo sceneggiatore anche del premiatissimoThe Social Network (2010), dedicato all’inventore di Facebook Mark Zuckerberg. Ma mentre in The Social Network riusciva, parlando delle disavventure giudiziarie del giovane e scorbutico Zuckerberg, a mettere a fuoco la rivoluzione comunicativa innescata dai social media, stavolta il film su Jobs non risulta altrettanto lucido ed esplicativo. Forse anche perché procede per dettagli di una carriera non nota a tutti nei suoi sviluppi. Meno ancora in Europa. Il film è pieno di questi riferimenti, spesso accennati ma non spiegati allo spettatore, il quale finisce per perdere i nessi logici. Si apprezzano così le interpretazioni degli attori, tutti in gran forma e concentratissimi, da Fassbender alla Winslet, a Seth Rogen (nel ruolo di Steve Wozniak, che fondò la Apple assieme a Job, era un genio della progettazione, uno dei padri del personal computer, ma non possedeva la visione d’insieme per pubblicizzare e vendere il prodotto, doti che invece erano di Jobs) e Jeff Daniels, gli ultimi due ancora più performanti perché, essendo famosi in particolare in ruoli comici, se ne misura la grande versatilità. Ma il ritratto umano di Jobs e il rapporto tra la sua personalità e la rivoluzione da lui compiuta (sognava in grande per realizzare l’impossibile e ci è riuscito) non emergono con chiarezza, restano in un limbo di inespresso.
Una battuta del film, tra Jobs e Steve Wozniak, è più illuminante delle due ore di film: Wozniak rimprovera a Jobs di non essere un tecnico (non era né un ingegnere né un programmatore) e il protagonista risponde che il suo lavoro non è suonare uno strumento ma far suonare tutta l’orchestra. La regia non trova il vero guizzo per affermare il concetto con il linguaggio delle immagini.