Storia del tiratore scelto più famoso d’America (250 nemici eliminati in Iraq) con la retorica d’un western senza tempo

sniper(di Marisa Marzelli) Clint Eastwood e le guerre. È riuscito a raccontare la Seconda Guerra Mondiale sia dalla parte americana (The Flag of our Fathers) che giapponese (Lettere da Iwo Jyma), ma il distacco temporale dai fatti aiuta. Stavolta parla invece alla pancia e al cuore degli americani immersi in un conflitto contemporaneo. Si capisce, negli interstizi, che non condivide tutto ma non può nemmeno distanziarsi troppo dal sentire di un’opinione pubblica molto diversa da quella europea. Non si può pretendere sempre che l’ispettore Callaghan sfoderi una visione liberal. Da qui, una certa ambiguità del film, tratto dall’autobiografia del tiratore scelto più famoso d’America, il texano Chris Kyle, pluridecorato e soprannominato “la leggenda” per aver eliminato oltre 250 nemici (il Pentagono ne ha accreditati solo 160) in quattro missioni in Iraq come supporto alle truppe.
La struttura narrativa è semplice e a tratti si ripete, alternando le azioni belliche e la vita familiare del protagonista. Chris Kyle (interpretato da un Bradley Cooper gonfio di muscoli) è un buon americano. La sua filosofia, inculcatagli sin da piccolo dal padre, è priva di dubbi e sfumature; esistono tre categorie di persone: i predatori, le prede e i protettori (delle prede). Lui sceglie di fare il protettore, mettendo a frutto il talento di una mira perfetta. Dopo l’11 Settembre si arruola, riceve un addestramento alla Full Metal Jacket, va in Iraq e il suo compito è appostarsi sui tetti durante le azioni e sparare ai guerriglieri. Nel frattempo si è sposato con Taya (Sienna Miller) che lo attende trepidante a casa. Corretto (spara solo se è convinto sia necessario) e generoso (si preoccupa per le vite che non riesce a salvare), mette in secondo piano la famiglia solo rispetto alla patria. Dio, Patria e Famiglia, i cardini classici; Eastwood li esalta non senza retorica.
Ma in un film così – impostato su una vicenda reale – conta il significato da cogliere tra le righe.
Intanto, c’è un compendio di quanto il cinema bellico americano ci ha  raccontato. La veste è quella eroica da Seconda Guerra Mondiale, ma filtrano le problematiche del Vietnam (Il cacciatore, Platoon) e citazioni di film famosi sulla guerra in Iraq (Redacted di De Palma e The Hurt Locker della Bigelow, sull’adrenalina da campo di battaglia che dà assuefazione e impedisce “dopo” di tornare alla vita civile). Eastwood mescola tutti questi temi, in apparenza esalta l’eroe ma con qualche perplessità. Ad esempio, per due volte il cecchino (lo sniper del titolo) ha sotto tiro un presunto terrorista, donna o ragazzino, e chiede via libera per sparare. Gli rispondono di decidere lui, perché ha la visione completa della situazione. C’è dunque il concetto della responsabilità individuale da assumersi, l’alto comando se ne lava le mani. Ma il cecchino, lo sguardo su un mondo da far esplodere, diventa in termini cinematografici una metafora più ampia. Si può vedere in American Sniper un western senza tempo in cui è immersa l’America. I “cattivi” sono ancora le ombre rosse indistinte e minacciose, qui sfocate nelle tempeste di sabbia. È l’eterno nemico, non individuale, collettivo; è un’idea. È la paura inconscia del corpo sociale. Che genera il concetto condiviso della “violenza necessaria”.
Infine, quando Kyle torna a casa fatica a riadattarsi alla vita normale, soffre lo stress post traumatico dei reduci (su questo aveva già detto molto Taxi Driver, ma la storia si ripete). Però si prende cura di chi è rimasto ferito, nel corpo o nella mente. E sarà proprio un veterano che lui vuole aiutare ad ucciderlo in un poligono di tiro. Il fatto avviene fuori scena, lo racconta solo una scarna didascalia finale. Il dramma della guerra si trascina anche in patria, conseguenza tragica e taciuta, senza gloria. In questo scatto conclusivo il film cancella tutta l’epopea costruita sin lì.
Basta ad assolvere l’autore da quasi due ore di esaltazione guerresca? Il pubblico americano coglie la critica non urlata?
In origine il film doveva dirigerlo Spielberg. Il regista di E.T. è diventato con gli anni estremamente allineato e istituzionale, forse ne avrebbe fatto un Soldato Ryan salvatore e non da salvare. Non lo sapremo mai. Resta il fatto che Eastwood sembra girare con qualche preoccupazione di poter essere frainteso, i personaggi attorno al protagonista sono unidimensionali e non approfonditi. E poi, suona strano e persino incosciente che durante le operazioni militari il protagonista parli al telefono con la moglie, che sceglie il momento meno opportuno per chiamarlo. Quanto a Bradley Cooper (anche coproduttore insieme a Eastwood), si conferma molto bravo e un tantino ruffiano. Sceglie sempre il personaggio giusto al momento giusto, impedendo alla sua immagine di cristallizzarsi in ruoli ricorrenti.