Storia insensata, storicamente scorretta. Ma una grande realizzazione musicale e scenica. Domingo? Troppa grazia

MILANO, mercoledì 13 (di Carla Maria Casanova)Tamerlano di Haendel (per la prima volta) alla Scala. Quattro ore e venticinque minuti. Sì, lunghetto. Non mi si dica “anche Wagner”. La musica romantica (ammesso che uno non ce l’abbia con Wagner, personaggio odioso e spregevole, ma quanto a compositore meglio lasciarlo stare) la musica romantica, dicevo, se non altro “quella”, ti entra dentro, ti possiede, ti dà fremiti vitali eccetera. Haendel, Settecento, è pure grande musica, e sa essere sontuosa, ma del genere piuttosto asettico. Se non altro lo è il “Tamerlano”: storia  insensata e storicamente scorretta, presa come scusa per una infilata di recitativi e arie oso dire piuttosto ripetitivi. Serse – basti pensare al suo celeberrimo “largo”-, Giulio Cesare, Rinaldo, Rodelinda, Alcina – che rivelò la strepitosa Sutherland – sono, della sterminata produzione haendeliana, titoli già molto più godibili. Inoltre  la musica barocca, con tutti i suoi problemi, impone esecuzioni di un certo stile e certi cantanti. Cosa che alla Scala è stata fatta e, per dirla subito, il pubblico ha applaudito forsennatamente, persino dopo ogni aria, neanche si fosse trattato del Rigoletto.
Esecuzione dunque ineccepibile; direttore il grande esperto Diego Fasolis, punto di riferimento mondiale per questo repertorio, dalla tenuta regale, con tempi scanditi in asciutta severità; orchestra della Scala con strumenti d’epoca (corde di budello ecc); cantanti specialisti (fuorché uno, ne parliamo a parte); addirittura due controtenori, genere pochissimo usato in Italia, dove nonostante tutto si preferisce il mezzosoprano, anche se comporta il ruolo maschile cantato da una interprete donna, effetto sempre fastidioso. Affinché la filologia fosse super rispettata, sono anche stati aperti tutti i tagli, allorché si sarebbe pensato piuttosto a qualche taglio in più, vista la sconsiderata durata dell’opera. È persino stata aggiunta un’aria per Leone, il personaggio minore. Nel cast c’è un solo neo e si chiama Placido Domingo (Bajazet). A uno vien subito fatto di domandarsi  Ma cosa ci fa Domingo nel Tamerlano. Già, cosa ci fa. Per l’occasione, gli è stato chiesto di riprendere il suo registro di tenore (oramai canta solo parti di baritono) e lui l’ha ripreso, trovandosi naturalmente a suo agio. Anzi, sortendo una interpretazione splendida, accorata, intensa. È proprio il suo affascinante colore vocale che stona. Domingo, voce calda, impostata per il melodramma, canta con il cuore, non lascia perdere una sola intenzione, pronuncia scandendo ogni sillaba. Si sarebbe detto che cantava Simon Boccanegra o giù di lì. Lo spettatore prende parte al suo dramma di padre che  scopre di avere una figlia passata (lui crede) dalla parte del nemico. E che nemico. Nemico atavico per razza, religione, clan. Bajazet è il sultano ottomano vinto, Tamerlano il vincitore mongolo, rifondatore dell’Impero di Gengis Khan. Domingo, musicalissimo, ci racconta il suo strazio con le intonazioni, i gesti. Prendiamo tremendamente a cuore questo personaggio, ed è proprio questo che crea squilibrio nell’economia dell’opera giacché dei turbamenti degli altri non ci importa niente. La loro storia – come ha da essere- non ci riguarda. È d’altronde talmente ingarbugliata da creare solo confusione. Ci interessa come cantano, quel modo raffinatissimo, stilisticamente perfetto. Tra tutti, eccezionale il controtenore Franco Fagioli (Andronico). Ma anche gli  altri: Bejun Mehta (sarà parente?), Tamerlano; Maria Grazia Schiavo (Asteria), Marianne Crebassa (Irene) Christian Senn (Leone). Insomma Domingo sì, ancora, sempre, ma non qui.
Lo spettacolo scenico è stato ideato dal regista Davide Livermore con scene sue e dello studio Giò Form. Costumi di Marianna Fracasso. Adesso si usano molto le rivisitazioni anni Venti. Qui si è ricreato un periodo preciso: 1917, la Rivoluzione russa. Lettura alla Sergej Ejzenstein. I personaggi, a voler vedere, ci sono: Stalin (Tamerlano); zar Nicola II (Bajazet);  Trotsky (Andronico). Le donne servono per l’irrinunciabile côté amoroso. Il sipario si apre su una tundra grigia, sferzata da una bufera di neve (immediato riferimento a Dostoevsky). Con la seconda stupefacente scena (i vagoni del treno) si arriva ad Anna Karenina. Gli ufficiali dell’Armata rossa completano l’efficace ambientazione. Molte proiezioni nel cielo (nuvole, esplosioni, fumi, vicende atmosferiche turbolente). Molte azioni di guerra e guerriglia (forse troppe, specie durante le arie). Immancabili scene di eccessi nelle orge della soldataglia. I russi poi, si sa, erano piuttosto debosciati. Non si capiscono bene gli amplessi gay tra le guardie femminili, ma tant’è. Lo spettacolo, plumbeo, si impone per l’inventiva e per la magistrale realizzazione. La chiave qui scelta ci ha fatto risalire a quel magico Tamerlano del Maggio Musicale Fiorentino (2001) alla Pergola, regista Graham Vick. Una fiaba orientale con immagini e colori da sogno. Ma ognuno ha il suo legittimo modo di sentire.

Teatro alla Scala – “Tamerlano”  di Georg Friederick Haendel. Repliche 19, 22, 25, 27, 30 settembre, 4 ottobre.