(di Andrea Bisicchia) – L’ultimo romanzo di Piero Lotito, “Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin”, Edizioni Ares, utilizza un genere letterario poco frequentato, ma che ha degli illustri precedenti, citati dallo stesso autore, si tratta di “I remember”, di Joe Brainard (1941-2014), e “Je me souviens” di Georges Perec (1936-1982), entrambi costruiti su una serie di ricordi che alternano il dato autobiografico a personaggi e situazioni che appartengono all’immaginario collettivo, ma che rimanda a specie di assemblaggi, collage, tipici della pittura degli anni Cinquanta-Sessanta. Brainard, del resto, era anche un pittore che usava simili tecniche. Il genere ha degli antesignani importanti, basterebbe rifarsi al Dialogo platonico, “Mnemusine e Lete”, ovvero ricordo e oblio, o a quel grande monumento della letteratura italiana che sono “I Ricordi” del Guicciardini.
Protagonista del romanzo di Lotito è, pertanto, la memoria, capace di scavare nelle storie intime dei personaggi che, però, convivono con temi universali, ma è anche la memoria che ci riconduce alle nostre radici, non per recuperare il tempo perduto, ma per dare, al tempo, una sua visibilità. Si tratta, in fondo, della memoria delle piccole cose che fa pensare, a volte, a un certo spirito crepuscolare.
Anche il titolo del romanzo fa parte di un ricordo (147), quello dello zio Aronne che aveva la stessa faccia, lo stesso sguardo di Jean Gabin e, come lui, portava alle labbra la sigaretta, tenendola penzoloni. Sono 468 i ricordi che Lotito ha raccolto e che coincidono con una parte della sua storia e con quella del maestro elementare, Raffaele Cela, diventato una specie di guida che, con le sue lezioni, produceva, a sua volta, la memoria, in particolare quella della storia che veniva insegnata in classe.
Il lettore si imbatte in eventi, in personaggi, in angoli bui dell’esistenza che appartengono al passato dell’autore che, a volte, appaiono ingenui, altre volte buffi, ed ancora si fa conoscenza di luoghi, a dire il vero, poco noti, perché trattasi di piccoli borghi, di masserie agropastorali o vivaistiche che si trovano attorno a Foggia, come Sant’Agata di Puglia, Deliceto, Cerignola, Ascoli Satriano, Corato, Torretta di Zezza, Torretta di Boffa, tutte a fare da cornice al Subappennino Dauno. Ci si trova dinanzi a una particolare geografia che vive una sua fama grazie ai “percorsi” fatti da Lotito. I ricordi vanno dai primi anni scolastici, trascorsi nella scuola, costruita utilizzando una ripartizione del Monastero di San Benedetto, i cui luoghi furono trasformati anche in una chiesa e in un carcere, agli anni spensierati dei giochi improvvisati con le palle di pezza, con innocui esplosivi, o utilizzando i nascondini. Sono gli anni dei primi cinema all’aperto, quelli dei successi televisivi di “Lascia o raddoppia” o delle trasmissioni radiofoniche, come quella del Microfono d’argento, a cui partecipò anche lo zio Leonardo. Non mancano i ricordi dei vari mercati, tra i quali, quello di Sant’Agata che, ogni settimana, ospitava acquirenti provenienti da altri borghi, magari per andare dal “cappellaro” che ritirava ciocche di capelli delle giovani sartine.
Un posto particolare occupano i ricordi che hanno a che fare con la politica, quando venivano allestiti i palchi per i comizi elettorali che vedevano contrapposti i comunisti, che cantavano “Bandiera rossa trionferà”, ai Repubblicani, al Movimento Sociale e al Partito Monarchico che riceveva soldi da Achille Lauro.
Il decennio 1950-60 è, insomma, il più denso di ricordi, quelli familiari, con particolare riguardo ai lavori di mamma e papà, ma anche delle sorelle, dei fratelli, dei nonni e delle zie, tutti impegnati nella “Vita dei campi” di verghiana memoria, specie quando i campi venivano invasi da calessi, da attrezzi agricoli, dagli animali, soprattutto cavalli, i cui passi battevano una sorta di tempo musicale.
Ci sono anche storie di paura vera o inventata, raccontate attorno al braciere, quella vera che vede due banditi complottare per rubare il calesse dei genitori, rischiando di essere uccisi, e quelle immaginarie delle streghe che spaventavano i bambini. Tutti i ricordi si attengono al “particulare” del Guicciardini, nel senso che, grazie ad esso, si scoprono gli universali, un particolare che riguarda le campagne, i paesaggi, i tanti personaggi che popolano il romanzo di Lotito che, come un entomologo o un antropologo, osserva ogni cosa con gli occhi del fanciullo, che sono anche quelli del narratore maturo.
“LO ZIO ARONNE SOMIGLIAVA A JEAN GABIN” di Piero Lotito. Edizioni Ares 2022, pp. 280, euro 20.