MILANO, giovedì 28 febbraio ► (di Carla Maria Casanova)
Applausi deliranti ieri sera alla Scala per Chovanščina dopo quattro ore e 11 minuti di spettacolo. E non importa se qualcuno del pubblico se ne era già andato e non importa nemmeno se il tutto esaurito si era raggiunto (pare) con la svendita al botteghino degli ultimi biglietti invenduti. Meglio svendere qualche biglietto che avere dei buchi in sala.
Comunque sia, ovazione. Iniziata subito, al primo applauso riservato al coro, il quale (Coro della Scala, istruito da Bruno Casoni), pur essendo notoriamente il miglior coro operistico esistente al mondo, ieri è riuscito a superarsi. In Chovanščina, impegnato per oltre metà dell’opera, il coro deve anche interpretare vari “personaggi”, dai moscoviti cialtroni che assaltano lo scrivano agli Strelizi ubriaconi, ai contadini, ai Monaci neri, tutte voci di collettività diverse. Oltre a cantare in russo con… voci russe!
Tutto il pubblico se ne è accorto.
Non si parlava che del Coro.
E quel finale dei Vecchi credenti che se ne vano a morire tra le fiamme: sublime.
Chovanščina è stata data nella oramai abituale revisione e orchestrazione di Shostakovič, non essendo riuscito Musorgskij, morto alcolista a 42 anni, a terminare l’opera, la quale avrebbe dovuto far parte addirittura di una trilogia epica sulla storia russa, di cui la prima parte è “Boris Godunov” e la terza non è stata mai realizzata. Mi pare qui azzardato e ragionevolmente inutile addentrarmi nelle complesse vicende dei torbidi che funestarono la Russia negli anni di Chovanščina (1618-1689), che portarono alla sconfitta dei vecchi credenti e all’ascesa al trono di Pietro il Grande. È però da notare che il libretto – delle stesso Musorgskij – è ben scritto e del tutto coerente alle singole situazioni, che si seguono agevolmente volta per volta. Ma basta la musica. Chovanščina non è Boris. D’altra parte non è neppure del tutto Musorgskij, dato il sostanziale apporto di Shostakovic (e meno male, perché la prima revisione, di Rimskij-Korsakov, edulcorata e illeggiadrita sia pur con la miglior buona volontà, dall’originale era ancora più lontano). Se ricordiamo l’infelicità e il pessimismo della breve vita di Musorgskij (pur nato in nobile e agiata famiglia, non ebbe né amori né salute né onori né riconoscimenti, inviso sia dai nostalgici zaristi sia dai sovietici, morto disperato dopo tre attacchi di epilessia) cogliamo in Chovanščina un messaggio di grande sofferenza. Eppure, genio solitario, come tanti altri era profeta di un mondo nuovo della musica.
Per esprimere tanto dolore, sul podio della Scala c’è:
Valery Gergiev, il direttore dall’espressione torva che dirige agitando solo le mani, con gesti di farfalle. Anche lui fatto segno di ovazione. È possibile che, nella sua possente direzione, manchi qualche indugio verso i, sia pur rari, colori più vivaci della partitura?
Tutti i numerosi interpreti, scrupolosamente russi, hanno profuso vocalità e resa interpretativa ottimali. Occorre segnalare almeno Mikhail Petronko (Chovanskij), Ekaterina Semenciuk (applauditissima Marfa), Stanislav Trofimov (Dosifej), Evgheny Akimov (Golicyn), Evgenia Muraveva (Emma), Maxim Paster (scrivano).
L’impianto scenico (regìa/scene/costumi) è dovuto al team Martone/ Palli/Patzak che hanno creato un ambiente surreale, futurista, con lo sfondo disegnato da sagome di grattacieli che richiamano Metropolis di Lang, e il cielo è solcato da droni, e le lettere del testo vengono lette dal cellulare. Certe minacciose strutture plumbee fanno pensare a Chernobyl. Eppure, non ci crederete, non danno fastidio perché l’atmosfera snaturata resta perentoriamente russa.
Margherita Palli, che si è fatta le ossa con Ronconi e che si superò con le prospettive sghembe de “L’affare Makropoulos” (2009) continua il suo percorso di grandissima scenografa, di perizia tecnica e fantasia creativa sbalorditive, riuscendo ancora a stupire. Grande l’effetto dell’incendio finale (v. qui a lato).
I costumi di Ursula Patzak si sposano perfettamente all’ambientazione. Ci sono anche le “danze persiane”, tipiche danze arabe, dove ti aspetti di vedere comparire le danzatrici dal viso velato e con l’ombelico scoperto. No, qui per mano della coreografa Daniela Schiavone sono quattro autentiche cubiste dalle mosse proibite. È poi una di loro a imbracciare il fucile e far fuori senza scomporsi il debosciato principe Chovanskij dopo che si era lasciato andare a lascivi amplessi…
La regia. Il tutto viene gestito alla grande da Mario Martone, con un allestimento intelligente, accurato, serio, senza provocazioni. È un mondo impietoso avvolto da una nebbia buia e sottile, senso di incertezza. Che poi alla fine, nello scatenamento degli applausi, una vocetta in platea abbia gridato “Nooo”, lascia il tempo che trova.
Repliche: domenica 3 e 24 marzo (ore 14.30); 6, 13, 19, 29 marzo, ore 19. Lo spettacolo dura 4 ore e 11 minuti. Due intervalli.