Stupende riprese e grandi effetti visivi, ma il racconto è confuso, e anche la comprensione si disperde nella bufera

movie-everest1(di Marisa Marzelli) Everest del regista islandese Baltasar Kormákur ha aperto l’ultima Mostra di Venezia senza suscitare entusiasmi. E si capisce il perché. Infatti, se il film si fa ammirare per le riprese di alte vette, gli effetti visivi (in 3D) e per la suspence che nella seconda parte riesce a creare, ha pecche altrettanto notevoli. Dallo scarso approfondimento dei personaggi alla sostanziale incomprensione per lo spettatore della dinamica della tragedia che portò alla morte di otto persone (comprese tre guide) durante una disastrosa escursione sull’Everest nel maggio 1996. Non si riesce a farsi un’idea di dove esattamente si trovino i singoli alpinisti in difficoltà quando si scatena una bufera di neve. Un altro tema, potenzialmente il più interessante, cioè il business internazionale di scalate sulla montagna più alta del mondo (8.848 metri) organizzate per scalatori dilettanti e incoscienti ma disposti a pagare grosse cifre, viene accennato ma poi non sviluppato.
Andiamo con ordine. Basato sul libro Aria sottile di Jon Krakauer, il quale faceva parte di una delle due spedizioni di cui si parla e che è anche autore di un altro bestseller su viaggi estremi, Into the Wild (da cui è tratto l’omonimo film di Sean Penn), Everest racconta un disastro annunciato. L’accesso alla montagna è intasatissimo e due gruppi con turisti facoltosi, intenzionati a raggiungere la vetta per svariate ragioni, stanno per partire dal campo-base. Uno è diretto dalla guida Rob Hall (l’attore Jason Clarke), empatico nei confronti dei clienti e fin troppo accomodante; l’altro dal più strafottente Scott Fischer (Jake Gyllenhaal). Dapprima concorrenti, i due team finiranno per allearsi, ma non sarà sufficiente per salvare tutti. Le vicende degli scalatori in azione si alternano con i rapporti telefonici che alcuni di loro hanno con le famiglie a casa e i contatti radio con il campo-base. Emergono subito l’impreparazione fisica e mentale dei clienti ad affrontare la montagna e gli errori, per troppa comprensione o per valutazioni sbagliate, delle guide. Nonostante ciò, qualcuno arriva in vetta; altri si fermano prima, con la rassicurazione che verranno recuperati in fase di discesa. Ma si scatena una bufera di neve, i gruppetti si disperdono, dalla base non possono mandare soccorsi. La tragedia si consuma tra strazianti e gracchianti messaggi via radio o nel totale silenzio. Tra i pochi superstiti se la cava (non si capisce bene come, dato che era quasi assiderato) un americano la cui moglie al telefono mobilita l’ambasciata in Nepal e manda un elicottero militare a recuperarlo. Gli sherpa locali assistono in silenzio alla vendetta della montagna.
Kormákur è un giovane regista in ascesa al quale è stato affidato un grosso budget. La sua origine nordica gli permette di coinvolgere lo spettatore nel senso di gelo, nel glaciale distacco della natura, nel bianco a perdita d’occhio, nel rombo delle valanghe improvvise. Se la cava bene anche con azione e dramma, ma un film così complesso non riesce a padroneggiarlo. E non riesce ad esprimere il senso di una sfida mortale che vede l’uomo in posizione sfavorita.
La regia punta ad un film corale, con un cast di nomi famosi – comprendente anche Josh Brolin, John Hawkes, Sam Worthington, Keira Knightley, Robin Wright, Emily Watson – ma i singoli caratteri faticano ad uscire da prevedibili cliché. Quanto a quelli che si trovano sulla montagna, tra barbe lunghe, cappucci, cuffie calate sino agli occhi, maschere per l’ossigeno e incrostazioni di ghiaccio sul viso a volte nemmeno si riesce a riconoscere un personaggio dall’altro.