(di Andrea Bisicchia) Il 1968 fu un anno emblematico per una generazioni di artisti, di filosofi, di sociologi, di teatranti. Segnava lo spartiacque tra un periodo di ricostruzione, che aveva toccato punte di innovazione in tutti i campi, e un periodo di riflessione su ciò che era stato fatto e su ciò che c’era ancora da fare.
Anche la scienza sociologica andò in cerca di nuovi metodi di indagine, mentre la si vedeva impegnata su più fronti. Erving Goffman, proprio in quell’anno, pubblicò in Italia: “La vita quotidiana come rappresentazione”, Il Mulino, il cui schema concettuale era quello di applicare il linguaggio teatrale alla ricerca sociale, sia a livello individuale che collettivo, ponendo l’individuo sociale nella condizione di mettere in scena una rappresentazione, come a dire che, nella vita quotidiana, è possibile introdurre aspetti drammaturgici.
C’è da chiedersi, allora, quale possa essere la differenza tra il personaggio rappresentato dall’attore e l’attore che rappresenta il personaggio e capire se entrambi pratichino la finzione. Goffman prende come modelli alcuni aspetti della vita sociale, che ricerca all’interno di una famiglia, di un’industria, o semplicemente di un supermercato e di un partito politico, solo che, per indagare, fa ricorso alla rappresentazione, concepita come luogo della finzione, ma anche come spazio per portare in scena la propria vita, secondo l’indicazione pirandelliana di “Sei personaggi in cerca d’autore”. Perché ha scelto questo schema concettuale? Perché, a suo avviso, l’espressività dell’individuo sembra indicare due aspetti dell’attività semantica, quello che lascia trasparire un’ azione e quello realmente assunto, ovvero tra chi inganna e chi finge, prospettando per l’individuo due forme di interferenza, proprio come l’attore.
Insomma, nella vita reale fare un po’ di messa in scena non fa male, specie se questa contempla il gioco delle parti e, quindi, l’interpretazione di ruoli diversi.
Come l’attore, quindi, anche l’individuo impersona una parte e si sforza affinchè il suo personaggio sembri credibile, pertanto, come l’attore, si sente assorbito dalla recitazione, non facendo altro che portare in scena la “sua” rappresentazione. Specialista, in questo gioco delle parti, è il politico che deve rappresentare, a seconda degli interlocutori, la parte del personaggio sincero o cinico, in nome del bene comune, tanto che non importa se estenderà la sua parte a quella dell’imbroglione, la più favorevole, forse, consapevole del fatto che l’interlocutore ama essere ingannato e preferisce la recita alla realtà, facendo venire a galla la sua stupidità e l’imbecillità.
Goffman si inoltra anche verso le differenti funzioni della rappresentazione e, come un accorto regista, seleziona, non solo la sua equipe, ma anche gli strumenti scenici, cercando di capire cosa interessasse, soprattutto, al pubblico, confermando così la tesi del suo libro, ovvero che la vita quotidiana va vissuta come rappresentazione, dove è difficile distinguere tra ciò che affermiamo di essere e ciò che rappresentiamo.
Al lettore, la libertà di scegliere tra i retroscena e il gioco delle parti.
Erving Goffman, “La vita quotidiana come rappresentazione” – Il Mulino 1997 – pp 290 – € 17.85.