Sulle tracce del capostipite della commedia all’italiana. Ma ora con “I soliti ignoti”, dopo 60 anni, addio all’antico fascino

MILANO, venerdì 11 febbraio ► (di Paolo A. Paganini) C’era una volta la “commedia all’italiana”. Diciamo che, nelle glorificazioni dei vari generi cinematografici, come appunto la “commedia all’italiana”, c’era una volta il film di Monicelli, “I soliti ignoti”. Era il 1958. Da allora a oggi è considerato storicamente l’emblema, il simbolo, il capostipite per antonomasia della “commedia all’italiana”. Nata tra le cosce del neorealismo, tra il 1950 e il 1960, ne riportava tutti gli stimoli, la vitalità e i fervori, in un crogiuolo dove si fondevano “commedia di costume”, dramma e comicità a sfondo sociale o politico o satirico, con un moralismo di sottofondo, dove non mancava una più o meno marcata intenzione didattica, per compiacere ora la sinistra ora la destra. Ancora per diversi anni il pendolo politico sarebbe oscillato tra DC e PCI.
Ma “I soliti ignoti” sono stati un capolavoro assoluto.
Come tutti i capostipiti, era nutrimento per tutti gusti. Già lo staff attoriale – udite udite – aveva nomi come Vittorio Gassman (che debuttava nel comico, con il personaggio d’un pugilatore suonato); Marcello Mastroianni (fotografo squattrinato), Claudia Cardinale e Tiberio Murgia (esordienti); e ancora: Totò (scassinatore in pensione) e poi Renato Salvatori, Carla Gravina, Memmo Carotenuto… Basta. Tutti personaggi e personaggini rappresentativi di tipiche categorie sociali di falliti, di poveracci, perennemente in bolletta, tra fame e debiti, tutti quelli, insomma, che, con rispettoso uso dei vari dialetti, da Nord a Sud, erano usciti malconci in un dopoguerra tra macerie e disoccupazione.
Non mariuoli, ma povera gente alla ricerca di una sopravvivenza.
Qui, dunque, anche in teatro, abbiamo a che fare con una scalcinata e improvvisata banda del buco, sicura finalmente di un provvidenziale “risarcimento” economico, che avrebbe sanato tutti i loro guai. Riescono a farsi dare la soffiata d’un colpo sicuro in un monte di pietà confinante con la cucina di un appartamento, dove sarebbe stato un gioco di ragazzi sfondare una parete di carta velina e arrivare dritti dritti alla cassaforte del monte di pietà. Tutto andrà storto. Rimarrà il conforto di una pentola di pasta e ceci nella cucina dell’appartamento…
Così nel film e così in teatro. Al Manzoni, dove, in un paio d’ore con un intervallo, si svolge un fedele canovaccio dell’opera di Monicelli. Trascina di forza dagli anni Cinquanta ai nostri tempi, al nostro impoverito oggi, e conserva solo traccia degli antichi umori sociali, morali, ritrovandoci ora in un mondo che non gli appartiene più. Oggi non esisterebbe quella banda di balordi disperati. Sarebbe sostituita da manipoli di giovinastri violenti e di delinquenziale vocazione alla prevaricazione, alla ferocia, alla mancanza di pietà e di rispetto, di amore e di solidarietà. Caratteri morali ancora ritrovabili negli anni Cinquanta.
Ora, i nostri attori, sul palcoscenico, rappresentano una dignitosa banda di generosi professionisti, che ce la mettono tutto per dare credibilità a una operazione teatrale divertente e inutile (come la brutta e inutile scenografia di Luigi Ferrigno).
I personaggi del film ci sono tutti, addirittura i nostri attori ne imitano tic e caratteri, utili a far ricordare agli anziani il godimento procurato allora da Monicelli. Per il resto si ride. A proposito o a sproposito.
Credo che il regista Vinicio Marchioni non avrebbe potuto fare di più, se non fare il rabdomante di quelle antiche tracce.
Mutatis mutandis, gli attori (Giuseppe Zeno, Fabio Triano. Paolo Giovannucci, Salvatore Caruso, Vito Facciolla, Antonio Grosso, Ivano schiavi e Marilena Anniballi) entrano con convincente disinvoltura nei vecchi panni cinematografici di Capannelle, del pugilatore, del fotografo, delle servette Nicoletta e di Carmela…
E il pubblico si diverte. Che vuoi di più a carnevale?
Si replica fino a domenica 20 febbraio.