Teatro degli orrori d’un geniale Damiano Michieletto nel maledetto mondo di dannati dello spagnolo Valle-Inclán

RussoAlesi,Foschi©MasiarPasqualiMILANO, giovedì 26 marzo   
(di Paolo A. Paganini) Bisognerebbe dedicare un discorso a parte su Ramón Maria del Valle-Inclán, spagnolo della Galizia (1866-1936), artista di variegato ingegno, immaginifico ed epicamente barbaro poeta, narratore, drammaturgo, personalità “maledetta”, stravagante, ribelle, segnato nella carne, tormentato nell’anima (pensiamo a una ipotesi di consanguineità artistica tra Pasolini e Goya). È praticamente sconociuto in Italia. Accontentiamoci di queste nostre scarne note. E dedichiamoci, invece, al sulfureo inferno di miserabili che animano “Divine parole”, in scena al Piccolo Teatro Studio, con la regia di Damiano Michieletto, del quale, per il dopo Ronconi, si era addirittura parlato di possibili successioni alla direzione artistica (ma Sergio Escobar nega, il direttore c’est moi, il direttore c’è già, no?).
In poco più di due ore senza intervallo, il giovane regista quarantenne, già affermato sul fronte della prosa e della lirica in geniali allestimenti controcorrente, qui guazza nel fango. Nel senso letterale. La platea del Teatro Studio è per tre quarti una immensa vasca di fanghiglia, attraverso la quale, tra cimitero e chiesuola sul fondo, il sagrestano Pedro Gailo tenta faticosamente di sistemare lignee passerelle (tipo per acqua alta veneziana), per cercar di congiungere la terra all’altare, dal fango al cielo, da un mondo di orrori a un empireo di purezza. Interpretazione e invenzione dovute a Michieletto. In questa melma di aggira la putrida corte dei miracoli di Valle-Inclán: ciechi, ubriaconi, puttane, mendicanti, ladri, assassini, violentatori, femminielli. Un mondo osceno e deforme eppure elementare, istintuale, sensuale, primitivo e bestiale, eppure guardato con pietà, con una ferocia di comprensioni senza assoluzioni.
Simbolo di questi archetipi del male è una carrozzina con un bimbo deforme, un mostro, tirata, con pena interessata, da una madre che ne esibisce le miserie per estorcere qualche caritatevole moneta. La madre muore come un cane, abbandonata nel fango, e la carrozzina con il suo mostruoso contenuto diventa un’ambita e controversa gara da parte degli avidi ed interessati familiari che litigano per il suo possesso e per il suo sfruttamento economico: il sagrestano Pedro Gailo, la moglie adultera Mari Gaila, la figlia Simonina, le due sorelle Marica e Juana. Mentre su tutti si erge la tetra figura del diabolico Séptimo Miau, vagabondo assassino ed ex galeotto, mefistofelica espressione d’ogni male, simbolo del maligno, forse lo stesso maligno.
L’azione di questo vermigno mondo di putrefatte e maledette anime senza dio, senza spiragli di salvezza, si svolge in Tre Giornate.
La Prima Giornata Dolorosa è incentrata sulla morte della madre del mostro.
La Seconda Giornata, dove si parla di disonore (un nonsenso semantico per personaggi che non conoscono l’onore), contempla il dramma del sagrestano, che decide di ammazzare la moglie infedele per riscattare il proprio onore; riesce solo ad uscire di senno mentre tenta di abusare della figlia; intanto (truce versione di Michieletto) il femminiello ammazza il piccolo mostro, il vagabondo oltraggia una donna, il povero corpicino del bimbo è dilaniato dai maiali.
La Terza Giornata contempla l’incontro carnale tra il vagabondo e la moglie del sagrestano; la violenza del branco di paesani infoiati che si avventano sulla fedifraga; la pietà del marito che non ha cuore di ammazzarla, mentre lancia l’evangelico ammonimento: “Chi è senza peccato…” Tanto evangelico che (regia di Michieletto) ad essere lapidato è lo stesso sagrestano, e il vagabondo viene appeso… Amen.
La compagnia (quindici attori tra professionisti e allievi della scuola interna di teatro) sono tutti degni di encomio. In particolare, per l’importanza e la carismatica suggestione dei ruoli, segnaleremo Fausto Russo Alesi (lo straziante sagrestano Pedro Gailo), Marco Foschi (il sulfureo, inquietante vagabondo) e Federica Di Martino (la lupesca moglie del sagrestano). Oltre alla regia di Michieletto, capace di sconcertanti e folgoranti colpi di teatro, una doverosa segnalazione va alla scelta delle musiche, di mistica tradizione cristiana, in fascinoso contrasto con gli inferi contorcimenti della bestia umana.
Il pubblico, sospeso tra orrore ed emozione (lo spettacolo è sconsigliato ai minori), alla fine ha manifestato a Michieletto e compagnia convinti e cordiali consensi.

“Divine Parole”, di Ramón Maria del Valle-Inclán, regia di Damiano Michieletto. Al Piccolo Teatro Studio, Via Rivoli 6, Milano. Repliche fino a giovedì 30 aprile.