MILANO, mercoledì 25 maggio ► (di Paolo A. Paganini) La ThyssenKrupp, con i suoi quasi duecentomila dipendenti, e con fatturati da capogiro, è la più importante azienda siderurgica d’Europa. Fornisce acciaio per l’industria civile, automobilistica, mineraria, ferroviaria, navale, e quant’altro mai, dagli ascensori alle posate.
La sera del 5 dicembre 2007, nella fabbrica torinese della Thyssen, nel reparto della maledetta linea 5, gli operai, tutti operai specializzati, si stanno preparando per il turno di notte, che va dalle 22 all’alba. Un quarto d’ora prima, si trovano nello spogliatoio. Hanno le loro storie, la loro vita, i loro problemi. Sono preoccupati, hanno quasi tutti famiglia. E fra due mesi la Thyssen di Torino chiuderà. Forse potranno essere riciclati in altre sedi. A Terni per esempio. Ma la disoccupazione rimane una tragica prospettiva.
Di quella notte, ci sono racconti tragici, sconvolgenti. Sono racconti di compagni di lavoro, in forma di diario o di memoriale, con tanto di nomi, età, caratteri, ambizioni, attese, speranze, figli piccoli a casa, progetti di vita. Prima che una lingua di fuoco, a 1200 gradi, come un inesorabile lanciafiamme, li avvolgesse, li inghiottisse. Bruciati, carbonizzati, consumati dal fuoco. Sette di loro sono morti così. A causa di criminali responsabilità, mancanza di adeguate sicurezze, estintori che non funzionavano, revisioni non effettuate… In televisione, allora, si son visti i funerali. Scene strazianti di giovani mogli, di madri disperate, che gridavano, imploravano, imprecavano, maledivano.
Basta.
Questa drammatica premessa (la storia è peraltro conosciutissima) serve da introduzione allo spettacolo “Acciaio liquido”, del giovane milanese Marco Di Stefano, con sette formidabili attori, in un amalgama intepretativo abilmente concertato da Lara Franceschetti (anche ideazione e adattamento).
Sull’allestimento, in scena all’Out Off, un’ora e mezzo senza intervallo, dobbiamo subito fare dei distinguo. Potrebbe essere classificato come teatro denuncia, con qualche sottile distinzione come teatro civile. Ma lasceremmo perdere entrambe le distinzioni a causa d’un suo limite strutturale, che li esclude entrambi. Il principale motivo è incredibilmente la sua mancata storicizzazione.
Per una strana incredibile reticenza non si nomina la Thyssen. Perché? Per pudore, per rispetto, per timore? Non si accenna alle polemiche, sociali, politiche, giudiridiche, sindacali, che hanno travolto la tragedia torinese. Non si parla di date, né di nomi, né di sentenze passate in giudicato, con sei imputati condannati in Cassazione con pene da 6 anni e 3 mesi a 9 anni e 8 mesi.
Cosa rimane, dunque? Rimane l’impianto drammaturgico, costruito dal di dentro della notizia, ch’è data per scontata nei suoi compionenti cronacistici. Rimane una tensione emotiva inquietante, anche dolorosa, talvolta straziante, ma soltanto come tragedia-metafora, in un certo senso fuori dal tempo e dalla realtà, eppure sempre nel tempo e nella realtà, proprio perché l’abbiamo conosciuta, sofferta, condivisa. Tuttora. Ed ora attualizzata, appunto dentro di noi, nel nostro vissuto di spettatori. Vista dal di fuori, rimane, dunque, come generico dramma civile, come un classico, senza precisi referenti storici, seppur presenti dentro di noi come universali, e qui dibattuti in una generica denuncia: contro il cinismo dei profitti, contro la mancanza di rispetto operaio, contro l’indifferenza nei confronti della sicurezza sul lavoro.
E con tutto ciò, insieme con l’indignazione morale, viene esaltato l’orgoglio del lavoro, il vanto di esser bravi operai, quasi un’apologia. Mi è piaciuta. Se vogliamo racimolare qualche valore, sotto le macerie dell’indifferenza collettiva, possiamo ricominciare proprio da qua, dal recupero del rispetto e della dignità del lavoro.
Lo spettacolo offre due momenti di straziata bellezza. La ribellione d’una giovane vedova con bimbi piccoli che reclama il cognome del marito per il figlio appena nato. Contro l’infamia della burocrazia. L’interprete: Federica Armillis. Grandissima.
Epoi la scena finale, quando gli interpreti si spogliano, e rimangono soltanto i personaggi: come spoglie nude e disperate. Da groppo in gola.
Infine: qualche taglio, eh, non sarebbe sprecato! Per esempio, rimetter mano sulle due ultime tirate finali.
Osannanti applausi finali.
Si replica solo fino a domenica 29. Peccato, meritava una più lunga permanenza.
“ACCIAIO LIQUIDO”, di Marco di Stefano – Ideazione, adattamento e regia Lara Franceschetti – Con Federica Armillis, Angelo Colombo, Andrea Corsi, Paolo Garghentino, Giovanni Longhin, Francesco Meola, Claudio Migliavacca, Giuseppe Russo – Assistente alla regia Paola Panizza – Scene e costumi Maria Chiara Vitali – Al Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16, Milano