Tonya Harding, una carriera (e una vita) gettata al vento. Perché per diventare campioni il talento, da solo, non basta

(di Patrizia Pedrazzini) Pattinaggio artistico e cronaca nera. Perché no? In fondo, e con buona pace del barone de Coubertin, la competizione sportiva non sempre e non necessariamente è aliena da invidie e gelosie. Che è un po’ quello che Craig Gillespie, regista australiano perennemente in bilico tra comicità e realismo, emozione e provocazione (“Lars e una ragazza tutta sua”, “L’ultima tempesta”), racconta in “Tonya”. La storia vera, con tanto di faticosa ascesa e rovinosa caduta, della pattinatrice americana Tonya Maxene Harding, da quando, a quattro anni, incominciò a muovere i primi passi sui pattini, a quando, a 24, dal quel mondo che tanto aveva sudato per conquistarsi venne, senza alcuna possibilità di appello, cacciata fuori.
Il ritratto tragico e al tempo stesso ironico di un carattere focoso e fragile, di una outsider problematica e instabile, figlia di quel proletariato white trash, ignorante, cafone e burino, di tanta provincia americana. Cresciuta a suon di sberle, insulti e – va da sé – totale mancanza di autostima da una madre (una straordinaria Allison Janney, Oscar come miglior attrice non protagonista) di quelle che sembrano nate apposta per rovinare la vita ai figli. Sposata a un uomo mediocre e stupido che non solo la picchiava dalla mattina alla sera (e lei si era quasi convinta di meritarsele, le botte), ma che alla fine la mise del tutto nei guai. Fumatrice accanita, asmatica, sgraziata, goffa (caratteristiche che i giudici non le perdonavano, aumentandone l’aggressività e l’ossessione per la vittoria, oltre che per i soldi), ma, sul ghiaccio, una forza della natura. La prima americana a eseguire perfettamente un triplo axel, l’impegnativo salto di tre giri e mezzo, che nel ’91 effettuò quattro volte. Fino a quando, nel 1994, in vista delle Olimpiadi invernali di Lillehammer, l’ormai ex marito, in combutta con un amico comune che non si capisce bene se fosse più delinquente o più scemo, pensò bene di far spaccare a bastonate il ginocchio a Nancy Kerrigan, pattinatrice rivale della Harding, nonché più bella, aggraziata ed elegante di lei. Un episodio al limite del grottesco, nella sua idiozia, tanto più che l’inesperto esecutore riuscì a procurare, alla sventurata Kerrigan, solo un danno provvisorio, ottenendo in compenso l’effetto opposto di fare di lei una martire, e di Tonya una carnefice. La Harding non venne ritenuta mandante dell’episodio, ma i giudici appurarono che non poteva non sapere, per cui la giovane donna venne radiata a vita dalla US Figure Skating Association. Fine.
Una storiaccia. Ma Gillespie non ama fermarsi all’apparenza. E, grazie anche all’energica interpretazione, nelle vesti di Tonya, di una Margot Robbie imbruttita (e involgarita) per l’occasione, tira fuori non solo il lato inevitabilmente drammatico della vicenda, ma anche quello, infinitamente più tragico, della solitudine di una donna incapace, e non per sua colpa, di salvarsi dal destino di pochezza e di sventura che la vita le ha cucito addosso fin dalla nascita. La famiglia che non c’è, la scuola lasciata prestissimo, la violenza, l’ottusità. L’imbecillità umana non è vero che basta ignorarla, può diventare pericolosissima, se non si ha la forza, anche solo istintiva, di starne lontani. E Tonya Harding non l’aveva.
Le ultime scene la mostrano impegnata nel patetico tentativo di riciclarsi come pugile. Ma l’asma non le consentirà di superare i sette incontri.