Tra i dannati di Dostoevskij in “Delitto e castigo”. Anime perse, ma forse ci sarà una redenzione. Intanto c’è la pietà

Massimo Loreto e Francesco Brandi in “Delitto e castigo” al Teatro Parenti

MILANO, martedì 20 febbraio ► (di Paolo A. Paganini) È già di per sé claustrofobica la terza saletta del Franco Parenti, fatta più per opere minimali da teatro da camera che non per allestimenti di più importanti e affollate rappresentazioni. Occorre coraggio. E dar vita, lì, al monumentale “Delitto e castigo” di Dostoevskij, ridotto in due tempi (uno un’ora e venti e l’altro di un’ora e dieci), di per sé portato a buie sensazioni oniriche, a fantasmici giochi di ombre, in cui si assiepano, nell’originale, più di venti personaggi, qui calati, ora, in nove interpreti, può sembrare addirittura temerario. Da lasciarci l’osso del collo. E se a questo si aggiunge che la storia di “Delitto e castigo”, più o meno schematica, c’è tutta, può sembrare addirittura incosciente l’operazione di Alberto Oliva, adattatore e regista, al quale il coraggio non manca.
Andiamo con ordine a raccattare le nostre idee, ancora turbate e incandescenti per questo lavoro appena visto – ma sì, diciamolo subito – meritevole e affascinante.
In questa scatola magica dell’orrore, sia per la saletta teatrale sia per la mente invasa da incubi e fantasmi, da allucinazioni e fobie, da stordenti immagini di fanciulle che si prostituiscono, di famiglie devastate dalla fame o dal vizio o dall’alcolismo, da personaggi dall’anima lercia e dannata, insomma c’è tutto Dostoevski, senza indulgenze e senza compiacimenti. C’è soprattutto il Dostoevskij delle “Memorie dalla casa dei morti” (1862), quasi un diario della pena scontata in Siberia dallo stesso Dostoevskij, o dei “Ricordi dal sottosuolo” (1864), dove tutti avranno un sottosuolo da cui risorgere.
Ecco dunque “Delitto e castigo” (1866).
C’è Raskol’nikov, il protagonista, lo studente povero ed esaltato, che, reputandosi un uomo superiore rispetto agli altri uomini “normali”, servi e ubbidienti, pensa che avrebbe potuto commettere anche un’azione spregevole, nel caso specifico l’uccisione della vecchia usuraia, se ciò avesse comportato un altro bene, più grande della sua stessa criminale azione. Sosterrà che se Newton o Keplero avessero dovuto uccidere un uomo, o addirittura un centinaio di uomini, per illuminare l’umanità con le loro leggi e le loro idee, ne sarebbe valsa la pena.
Dopo il nefando delitto, preparato con allucinata fredezza, il castigo di Raskol’nikov non sarà tanto il campo di lavoro in Siberia, al quale è condannato, ma il rendersi conto che quel delitto non è servito a nulla. Il vero castigo sarà il tormento, nella la sua paranoica esaltazione, di essere anche lui un uomo normale, che non ha saputo essere all’altezza di ciò che ha fatto.

Camilla Sandri e Mino Manni in una scena di “Delitto e castigo”, regia di Alberto Oliva

Entro la relativa linearità di questa trama, si muove la complessità d’un mondo parallelo che gli s’incastra, e che poggia, come controcanto del pensiero dostoeskiano per gli umili, su una ritrovata pietà verso i normali.
Nel frattempo la trama si snoda come una vicenda poliziesca alla la ricerca dell’assassino. Il giudice istruttore Porfirij Petrovic ha già capito tutto. Aspetta solo che sia Raskol’nikov a confessare. Intanto gli sviluppi si aggrovigliano su più piani. La sorella sta per sacrificarsi con un matrimonio odioso per aiutare la madre e il fratello. La giovane Sonja si prostituisce per sfamare i fratellini, e per aiutare il padre ubriacone e inebetito. Nel frattempo sfuma il matrimoniio della sorella, circuita dallo sciagurato Svidrigajlov, che, vinto dalla propria abiezione, si ucciderà. E Sonja finirà per unirsi allo studente assassino in Siberia su una nuova strada di redenzione, per dirla con Puccini.
Lo spettacolo, si diceva, avvince. Alberto Oliva ha osato l’inosabile. Bravo. Con qualche riserva, come vedremo. Ha vinto, in grazia anche dei nove interpreti tutti generosamente all’altezza, e quasi sempre convincenti. C’è soprattutto la figura centrale, l’interprete di Raskol’nikov, il sorprendente trentacinquenne Francesco Brandi, presenza inquietante, non facilmente dimenticabile: intenso, tutto giocato all’interno d’una coscienza dilaniata dal tormento d’un tragico fallimento dei propri alluncinati ideali di grandezza. Si muoverà, accettando l’inesorabilità del castigo, in tragico contrappunto con la figura del Giudice (Massimo Loreto), quasi un Maigret, paterno e implacabile.
La non facile lettura di Alberto Oliva, al Parenti, in questo angusto teatrino di riserva, risente incolpevolmente di alcuni limiti. Le scene posticce e escorrevoli. E come avrebbe potuto diversamente? Alcuni cedimenti, tra il sociologico e il didascalico, necessari tuttavia alla cucitura d’un operazione così complessa, e qualche ingenuità, dovendo utilizzare alcune presenze en travesti, che danno l’impressione del posticcio. Peccati veniali.
Pubblico religiosamente partecipe. E caloroso consenso finale per tutti. Si replica fino a domenica 4 marzo.

“Delitto e castigo”, di Dostoevskij, adattamento Alberto Oliva e Mino Manni. Regia Alberto Oliva. Con Francesco Brandi (Raskol’nikov), Giulia Merelli (Sonja), Camilla Sandri (Dunja sorella di Raskol’nikov / Lizaveta), Massimo Loreto (Porfirij), Marco Balbi (Luzin / Marmeladov), Mino Manni (Svidrigajlov), Maria Eugenia D’Aquino (Katerina Ivanovna / Mamma Raskolnikov). – Riccardo Sinibaldi (Razumichin), – Sara Marconi (Amalja). Al Teatro Franco parenti, Via Pier Lombardo 14 – 20135 Milano – Tel. 02 59995217

www.teatrofrancoparenti.it