Tra ricerca e divulgazione. Ulisse, cantore di se stesso. Da Omero ai giorni nostri. E con una strepitosa iconografia

(di Andrea Bisicchia) Il nuovo libro di Piero Boitani, “Il grande racconto di Ulisse”, edito da Il Mulino, è da considerare un vero e proprio viaggio gnoseologico, con l’ utilizzo della disciplina comparativa, di cui l’autore è un Maestro, un libro che produce gioia nell’attraversarlo, la tipica gioia della lettura dovuta all’alternanza della ricerca con la divulgazione erudita.
Boitani ci permette di conoscere, non solo alcuni aspetti poco noti dell’Ulisse omerico, ma anche cosa sia diventato questo personaggio in tutta la letteratura mondiale, attraverso le riscritture che sono state fatte, non solo letterarie, teatrali, cinematografiche, televisive, ma anche figurative, visto che il testo è accompagnato dalla più vasta iconografia raccolta sull’argomento, dove il mito di Ulisse, con riferimenti diretti e indiretti, è raffigurato in anfore, crateri, coppe, vasi, mosaici, rilievi di terracotta, capitelli, unguentari, lucerne, miniature, dipinti e sculture e dove, accanto al protagonista, trovano un posto di rilievo il Ciclope, le Sirene, la Maga Circe, Calipso, Nausica, Penelope, Laerte, i Feaci, Itaca.
Boitani, dopo un’analisi degli episodi più noti dell’Odissea, dei quali riporta i versi, si addentra nelle riscritture, nelle metamorfosi che dal Medioevo, con particolare attenzione al XXVI Canto dell’Inferno, arrivano ai giorni nostri, facendo convivere Mito e Storia, uomo ed eroe, autore e aedo, fino a formulare l’ipotesi che Ulisse fosse stato il primo cantore di se stesso, inventore di quello che oggi chiamiamo il Teatro dell’Oralità, dato che l’Odissea prendeva forma dalle parole stesse di Ulisse, ovvero dalla poesia che, secondo Aristotele, era “più filosofica e più seria della storia”.
Accanto al metodo comparativo, Boitani utilizza quello analogico, tanto che i “nuovi” Ulisse vengono ritenuti esploratori tipo Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e Magellano, come se, sul mito, la Storia esercitasse la sua pressione. Con l’Ulisse di Dante nasce l’idea moderna della conoscenza, quella che va oltre i limiti estremi, a cui cercano di dare risposta l’astrologia, l’astronomia e la scienza, quella di Galileo, di Darwin, di coloro che non vanno soltanto alla ricerca di nuovi mondi, di terra in terra, ma anche di scoperte più legate al mito della conoscenza, di chi è consapevole che la vita deve essere spesa senza alcun risparmio, soprattutto quando si è in prossimità della morte.
Accade, così, che il viaggio di Ulisse viene proiettato verso l’ombra di un arché o di un telos, ovvero di un principio e di una fine, come si evince dall’”Ulisse” di Alfred Tennyson, tradotto dallo stesso Boitani (di cui avevo letto la traduzione del Pascoli) che ritiene “cosa stupida il fermarsi”, per il quale ogni attimo ha il valore dell’infinito, quello che ci riporta a Leopardi della “Canzone ad Angelo Maj” e del sonetto “l’Infinito”. L’immagine che ricaviamo è quella di un Ulisse mai pago e che, ritornato in patria, non ha più voglia di governare, anzi, come Re Lear, declina ogni responsabilità contingente, per la ricerca di un Oltre, una specie di cupio cupiendi, per il quale, come dice Baudelaire “l’universo è pari alla sua brama illimitata”.
A questo punto, le conoscenze di Boitani sono da considerare anch’esse infinite, dato che le comparazioni vengono fatte con una moltitudine di autori che, a loro modo, hanno rivissuto e riscritto il mito; si va da Proust a D’Annunzio, a Pascoli, a Gozzano, a Kazantzakis, a Kavafis, a Seferis, a Ritsos, a Eliot, a Kafka, che capovolge il mito delle Sirene, sostenendo che non siano esse ad ammaliare, bensì l’Uomo.
Non poteva mancare l’Ulisse di Joyce, quello vuoto di eventi e di intreccio narrativo tradizionale, sostituiti da pensieri, sensazioni, allusioni, immagini.

Piero Boitani, “Il grande racconto di Ulisse”, Il Mulino 2016, pp 670, € 55.