(di Andrea Bisicchia) – Il teatro italiano sembra avere dimenticato un autore rivoluzionario come Maurice Maeterlinck, anzi per ricordare qualche sua messinscena, bisogna ritornare agli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, quando Ronconi curò la regia di “L’uccellino azzurro” (1979) e quando Mauro Avogadro realizzò, per la prima volta in Italia, al Carignano di Torino, con la traduzione di Guido Davico Bonino, “Pelléas e Melisande”, considerato uno dei capolavori del teatro di fine Ottocento, noto per la sua storia incestuosa che vede coinvolti due cognati, proprio come Paolo e Francesca.
L’Editore Cue Press ha pubblicato “Piccola Trilogia della Morte”, tre atti unici fondamentali per conoscere la fortuna del Simbolismo sulle scene europee, grazie proprio a Maeterlinck, si tratta di “L’intrusa”, “I ciechi”, “Le sette principesse”, testi che evidenziano il carattere rivoluzionario della scrittura del commediografo belga, una scrittura costruita su atmosfere fiabesche, dove le trame vengono sostituite da figure emblematiche, come quella del destino che tesse la vita dei vari protagonisti.
Ciò che caratterizza questa trilogia, è la maniera con cui Maeterlinck sia riuscito a rappresentare il dolore, lo smarrimento, l’infelicità, la solitudine, la malattia, la morte, una maniera raffinata, resa ancora più credibile grazie a un linguaggio rarefatto, musicale che tende, spesso, alla dimensione onirica, tanto che i personaggi non evidenziano alcun carattere, essendo, semplicemente, creature che vivono, contemporaneamente, l’incubo e il sogno. È quanto accade nei due Sogni di D’Annunzio: “Sogno di un mattino di primavera” e “Sogno di un tramonto d’autunno”, scritti nello stesso periodo, ma caratterizzati da una scrittura eccessiva, al contrario di quella di Maeterlinck, alquanto sintetica, essenziale e connaturata coi temi che tratta, come si può notare nell’“Intrusa”, con cui l’autore sperimenta la tecnica dell’attesa che anticipa quella di Beckett.
L’azione è ambientata in una sala, molto oscura, di un vecchio castello, dove un nonno, un padre e tre figlie attendono la risoluzione di un parto che si è rivelato alquanto drammatico. Attendono una sorella che ha lasciato il convento per assistere la madre, ma che non arriva, attendono il medico che anch’esso non arriva, la sola che farà sentire la sua presenza è l’intrusa, ovvero la morte. A sovrastare tutto è il buio della stanza e la quasi impossibilità a vedere, con il nonno cieco e con le figlie, il cui pallore rimanda a quello delle sette principesse distese sulle scale marmoree, sempre di un vecchio castello, abitato da due vecchi reali che attendono l’arrivo del principe, perché innamorato di una di esse. Il principe arriverà, ma si troverà in una sorta di obitorio, dove le sette principesse sembrano morte, benché, qualcuna di loro, abbia un piccolo sussulto. Ciò che conta è l’atmosfera simbolista, il sentimento dell’attesa che caratterizzerà anche “I ciechi” di cui si ricorda una messinscena di Angelo Longoni, nel giardino di Palazzo Barozzi, Istituto dei ciechi a Milano, nel luglio del 1990, un dramma semplicissimo, nella struttura, ma potente per la metafora che esprime, riferita non a coloro che non vedono, bensì a coloro che vedono e non vogliono vedere. Si tratta di un testo corale che racconta la condizione di un gruppo di ciechi che si sono smarriti in un bosco e che credono di essere stati abbandonati dalla loro guida, ma che la scoprono morta. Il pubblico, coinvolto in quella atmosfera di mistero, presagisce sviluppi ancora più drammatici.
Il volume contiene una breve introduzione di uno studioso molto colto, come Luca Scarlini, il quale sostiene che questa trilogia contenga l’annuncio: “delle future forme novecentesche con una precisione talvolta sconcertante”.
Maurice Maeterlinck, “PICCOLA TRILOGIA DELLA MORTE”, a cura di Luca Scarlini, Cue Press 2021, pp. 56, € 19,99
www.cuepress.com