VENEZIA, lunedì 25 novembre ► (di Carla Maria Casanova) – Inaugurazione del Gran Teatro la Fenice come programmato. Rispettati miracolosamente. I veneziani, davanti alla tragedia, sono impareggiabili. Si rimboccano le maniche e agiscono. Che significa buttar fuori l’”acqua alta” (questa volta cm 1,87) dalle case, dai negozi, dai ristoranti, dagli alberghi. Da tutto. Sempre, come il mitico uccello immortale da cui il Teatro prende nome, Venezia risorge.
Peccato che non si siano dati una mossa quando era ancora tempo, cioè “prima”.
Peccato che (tranne pochi valorosi – vedi Cacciari, allora sindaco- i quali l’urlo l’hanno lanciato) abbiano passato inerti 30 anni dal precedente disastro, senza urlare al pericolo, scongiurando il faraonico progetto biblicamente chiamato Mose (con l’accento sulla o) mai finito e già considerato insensato.
Ma c’erano troppi soldi in gioco. Talmente tanti da scatenare un rubalizio gigantesco. Quattro anni di indagini, durante i quali i lavori furono bloccati. I rei confessi però non pare abbiano l’ergastolo (non essendoci pena più severa). I veneziani hanno sopportato tutto in silenzio. Anche quando sono arrivate le Grandi Navi che minacciano di far decadere Venezia da sito Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Peggio. I piccoli commercianti, confortati da attuali personaggi in alto loco, hanno salutato con entusiasmo l’arrivo delle Grandi Navi. Eh sì, con i soldi dei 4000 giapponesi che sbarcano quotidianamente, permettono loro di mandare il figlio all’università.
Alla faccia di San Marco, patrimonio dell’umanità.
E allora, se il sindaco Brugnaro (che le Grandi Navi sostiene) è apparso ieri sera in palcoscenico con 4 fogli letti per 15 minuti, interrotto dalle lacrime, invocando l‘aiuto del mondo a salvare Venezia, possiamo assicurargli che per Venezia tutto il mondo si è sempre mosso. Basta che i veneziani non remino contro.
Fine del pistolotto.
Scusate, ma era l’occasione o mai. Per la salvezza di Venezia e contro le Grandi Navi, mi batto da anni.
Dunque “Don Carlo”, esemplare opera verdiana che mancava dalla Fenice da quasi 30 anni. Presente in palco reale la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Inno nazionale. Fenice stracolma. L’acqua non è più alta.
Lo spettacolo è firmato Robert Carsen considerato (giustamente) un genio della regìa (grande innovatore sul filone Ronconi). Le scene sono di Rada Boruzescu, i costumi Petra Reinhardt. È un Don Carlo fuori dalle righe. Giocato sul dramma terribile dell’opera, sul rapporto politico ma più ancora intimo dei personaggi: padre-figlio, moglie-marito, madre-figli/astro, re-amante (ma innamorata di un altro). Per creare questa plumbea atmosfera della Spagna del Cinquecento, ha preparato uno spettacolo tutto nero, scena metafisica, unica macchia “di colore” i mazzi di gigli bianchi. Si è giocato sui personaggi (tutti vestiti di nero, con fogge vagamente clericali). Lo spettacolo, in due tempi (durata tre ore più 25 minuti di intervallo) è durissimo ma di impatto travolgente. Incombe la Chiesa. Filippo è sempre contornato da loschi gesuiti impassibili che agiscono come potenza occulta, l’Auto da fé non esiste nella sua forma spettacolare, vengono portati in scena i libri confiscasti ai dissidenti e che qui servono quali prove della loro eresia. Che Eboli sia l’amante di Filippo viene esplicitamente dimostrato. Carlo, personaggio anche storicamente fragile, appare meditando come Amleto su un teschio. L’infante è sempre scalzo, fuorché nell’ultimo atto, quando finalmente recupera la sua autostima e decide di partire a salvare la Fiandra.
Tutto meraviglioso, uno spettacolo sorprendente. Con una strana avvisaglia a fine secondo atto: Posa, il grande di Spagna che si immola per salvare Carlo e il Paese, colpito a morte per volere dell’Inquisitore, improvvisamente si alza in piedi e dà la mano, con intesa (e occhiolino) all’Inquisitore stesso. Che cos’è? Un preannunciato lieto fine? Si capirà alla fine. Quando, a San Giusto, mentre Carlo ed Elisabetta si danno il casto addio (vedi Un ballo in maschera), irrompono in scena Filippo, l’Inquisitore con nutrito seguito di armigeri. C’è una gran sparatoria tipo Far West. Cadono Carlo, Elisabetta e lo stesso Filippo. Compare il redivivo Posa che viene incoronato imperatore. (In)giustizia è fatta. Tutta una finta? Posa era un delinquente comune che ha tramato contro tutti quanti? La grande tragedia finisce in farsa. Ecco un modo per rovinare un grande spettacolo.
Passando alla musica, non c’è da dire che bene. Myung-Whun Chung sul podio ha amplificato nell’orchestra della Fenice il risalto degli stati fortemente emotivi di quest’opera. Il cast è stellare, con tre debutti nei relativi personaggi: Piero Pretti (don Carlo) tenore di mezzi fulgidi; Julian Kim (Posa) baritono coreano rivelazione; Alex Esposito, basso Filippo II di autorevole piglio. Le donne sono straordinarie: Maria Agresta, soprano, Elisabetta dal fraseggio esemplare; Veronica Simeoni, mezzosoprano, Eboli di intensa partecipazione. Regge bene anche l’infernale Grande Inquisitore: basso Marco Spotti. Serata con molti applausi, qualche dissenso per Carsen, che ha fatto il giochellerone.
Ma don Carlo non è Falstaff e con le burle ha poco a che fare.
Repliche 27, 30 novembre, 3, 7 dicembre.