(di Andrea Bisicchia) – Dopo “Lettere agli italiani” (2021), Il Saggiatore ha pubblicato “Shakespeare, Goldoni, Brecht” di Giorgio Strehler, a cura di Giovanni Soresi, con una sapiente Prefazione di Maurizio Porro, un vero e proprio viaggio all’interno dei tre grandi autori che hanno accompagnato il lavoro del Maestro, un viaggio che si è trasformato in una serie di riflessioni che riguardavano, in particolare, il concetto di regia critica, da applicare ai testi, da intendere, non soltanto, come ricerca filologico-erudita e, pertanto, in alcuni casi, pedante e saccente, ma anche come slancio emotivo, frammisto a pensieri e intuizioni, realizzati, però, i con i mezzi del teatro.
Per Strehler, si trattava di una maniera diversa di scrivere un saggio, con la consapevolezza della fatica necessaria per farlo, fatica che andava messa al servizio di una perfetta corrispondenza tra ritmo drammatico e ritmo poetico, attenta, quindi, a distinguere il lavoro di ricerca critico-ideologica, da quello riguardante il concetto di scena, in nome del quale Strehler rivendicava la profonda realtà di una rappresentazione. In questo senso, l’atto critico doveva, a suo avviso, essere il più possibile totalizzante, nel senso che doveva rappresentare una precisa visione del mondo.
Se è vero, come sosteneva Jean Kott, che i classici sono sempre nostri contemporanei, è anche vero che, in nome di un rapporto con la contemporaneità, siano stati generati dei veri e propri mostri. Strehler non risparmiava coloro che, per incompetenza, “massacravano” i testi di Shakespeare, con “riscritture barbare”, che volevano giustificare facili banalità o trovare degli alibi per delle realizzazioni gratuite, prive di stile, soprattutto quando si ricorreva a puerili dissacrazioni per giustificare certe riduzioni in forma di fonemi, di irrisioni o di pura gestualità.
Affrontare Shakespeare per lui voleva dire studiarlo, approfondirlo, magari discutendone con i veri studiosi, riconoscere i suoi rapporti con la Storia, con le Ideologie, non quelle che vengono utilizzate per giustificare il concetto di contemporaneità. Dal lontano “Riccardo II“ (1948) a “La tempesta” (1978 ), Strehler ha portato in scena ben 12 testi del bardo che ha ritenuto un lungo lavoro di formazione, con spettacoli riusciti e altri no, ma che lo hanno condotto alla creazione di alcuni capolavori scenici, come “Il gioco dei potenti” (1965 ), “Re Lear” (1972) e la citata “Tempesta”, nei quali appare evidente un metodo di regia inteso come ricerca di alcune profonde verità insite nei testi, da trasformare in voci, suoni, gesti e, soprattutto, in verità poetiche.
Se in Shakespeare, Strehler ha visto il creatore del teatro moderno, col suo inventario di violenze, corruzioni, delitti, ai quali seppe contrapporre un inventario di storie d’amore e di virtù, in Goldoni ha visto una “grande luce di bontà, non pacificante, piuttosto critica, severa, ma sempre infinitamente umana”. Anche con Goldoni è stato necessario un periodo di formazione che va da “Arlecchino servitore di due padroni (1947) a “La putta onorata” (1950) fino a “La trilogia della villeggiatura “(1954), già intrisa di verità e poesia, un periodo necessario per raggiungere le verità poetiche di “Le baruffe chiozzotte” (1964), o del “Campiello” (1975), con quel suo indagare le psicologie popolari, con una perfetta logica, applicata nell’uso del tempo e, soprattutto, del fluire della storia che apparteneva al suo modo di mettere in scena Goldoni. Era il tempo del lavoro in mare aperto: “Creature, cossa diseu de sto tempo? “, era il tempo interminabile delle baruffe, o quello abbastanza chiuso del Campiello, dentro il quale, si viveva come in un clan unito e severo, dove ogni cosa accadeva tra la casa e la piazzetta e sottostava alle sue leggi, alla sua moralità, ai suoi costumi, dove era difficile accettare dei corpi estranei.
E, infine, Brecht, il cui teatro gli serviva a capire come stare nella società, magari per contribuire a cambiarla, nei cui testi, a cominciare dall’“Opera da tre soldi” (1956, ripresa nel 1973), il divertente diventava allarmante, l’evasione si trasformava in aggressione, il “gastronomico” in antigastronomico. Con Brecht, Strehler scopre l’importanza della metodologia teatrale di tipo dialettico, dove il concetto di “epico”, non ha nulla a che fare col didattico, come dimostrerà nella leggendaria messinscena del “Galileo” (1963). Forse questi suoi scritti non sono saggi accademici, ma certamente contengono una profonda analisi critica e una capacità di riflessione che vanno oltre l’accademismo.
“Shakespeare, Goldoni, Brecht” di Giorgio Strehler. A cura di Giovanni Soresi. Prefazione di Maurizio Porro – Il Saggiatore 2022, pagg 240, € 22