Tre simboli femminili della storia per capire le malattie dell’anima. E transitare dalla conoscenza alla coscienza

13.6.16 stroppa, cop(di Andrea Bisicchia) Da un po’ di tempo, la letteratura clinica utilizza dei personaggi del mito, del teatro, della narrativa, per ricercare le origini dei traumi che sconvolgono la mente umana, con la convinzione che i traumi dei personaggi maschili e femminili, nati dalla fantasia di un drammaturgo o di uno scrittore, siano tanto veri quanto quelli di chi i traumi li vive patologicamente. Carla Stroppa, psicanalista junghiana, nel volume edito da Moretti & Vitali: “Il doppio sguardo di Sophia, l’eterno femminino e il diavolo nella vita e nella letteratura”, cerca di legare le narrazioni alla vita e di sperimentare nuove forme di analisi clinica ricorrendo alle similitudini tra i personaggi dell’arte e quelli della quotidianità, utilizzando simboli e topos presi in prestito da modelli letterari per esportarli nell’esperienza clinica di creature femminili ammalate, delle quali l’autrice ricerca gli archetipi in donne della tradizione pagana: Sophia; di quella cristiana: Maria, e di quella erotica: Elena. Carla Stroppa cerca di esplorarne l’anima e quindi il mistero delle origini, quello dell’albero della vita, utilizzando il concetto junghiano di “individuazione” che equivale a quello filosofico di “entelechia”, ovvero alla capacità di diventare ciò che si è in maniera aderente alla propria natura.
Jung sostiene che l’anima profonda non è affatto personale, dato che, il personale, è costituito da un’anima oggettiva che risuona nella psiche individuale di uomini e donne nelle forme di memoria, cultura, desiderio. Per la Stroppa, l’anima femminile, nella sua originaria funzione, è madre (Maria), Eros (Elena), cultura (Sophia).
Cosa può generare, allora, la malattia dell’anima? Certamente i brutti sogni, come quelli di Amleto: “Io potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re di uno spazio infinito … se non fosse che faccio brutti sogni. (Atto II, scena II). I sogni fanno parte del nostro male di vivere che proviene da malattie originarie, ovvero da traumi antichi, tanto che, il male che ne consegue, non è sempre spiegabile perché frutto di una scissione tra corpo emozionale e pensiero.
L’autrice ricorre al mito faustiano ritenendolo il mito moderno per antonomasia in quanto simboleggia il desiderio di possedere, di godere, di diventare visibili, di andare oltre ogni limite, nella speranza di ottenere l’eterna giovinezza, di praticare il sesso libero e di aggirare, soprattutto, la morte. Sono questi i veri desideri della società di oggi tanto che, quando non si avverano, producono lesioni nella psiche. In verità, l’immortalità consiste solo nelle Opere e non certo nei nostri desideri di raggiungerla, magari facendo uso degli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica, ovvero ad un altro mito fondante, quello di Prometeo.
Chi può liberarci dal male di vivere? La conoscenza, ovvero Sophia che ha la potenzialità di pervenire nella dimensione trans-personale della psiche, essendo presente sia nel genere maschile che femminile. Non mancano, nella particolare ricerca, i riferimenti ad altri miti, quello di Narciso, di Dioniso, di Cristo, del Diavolo, con le loro simbologie che diventeranno patologie essendo la rappresentazione dell’amore di sé, dell’androgina, del sacrificio, della penitenza che si trasforma in schizofrenia, in doppiezza, in trauma. Solo Sophia può salvare l’anima dal pathos e aiutarla, attraverso l’analisi clinica, a transitare dalla conoscenza alla coscienza.

Carla Stroppa, “Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura”, Moretti & Vitali, 2016, p. 282, € 20