TRIBUNA – Una riflessione del drammaturgo e saggista Luigi Lunari sugli occidentali convertiti all’Islam

lunariVenerdì 31 ottobre
(di Luigi Lunari) Nessuno tragga dalla mie parole più di quello che precisamente dico, e forzi il mio pensiero oltre le sue reali e dichiarate intenzioni! Ma io mi sono convinto che sotto il fenomeno dei “fanatici” (chiamiamoli pure così) che nei Paesi occidentali si convertono all’Islam e vanno a combattere a fianco dei Jihadisti dello Stato (o Califfato) Islamico, ci sia qualcosa di più e di diverso di un assurdo fanatismo, che la pubblica opinione giudica inspiegabile e che – di conseguenza – rinuncia a spiegare.
E in effetti: che cosa può spingere un giovane (non importa se di origine musulmana o occidentale) che vive comunque nel nostro mondo e beneficia del suo benessere e delle sue infinite opportunità di vita, di lavoro, di promozione e di carriera… a voltare le spalle a tutto questo per associarsi a questo esercito straccione e sposarne non solo l’ideologia oscurantista che ripropone un mondo tribale ormai inesistente in natura, che ritorna alla “selva” precedente ogni patto sociale, ma anche la crudeltà di comportamenti ripugnanti come la “tratta” delle donne, o come le spettacolari decapitazioni a sangue freddo?
Salto all’unica risposta che ho trovato: questo sacrificio di sè esprime – seppur distorto e fallace – il profondo bisogno di un ideale. Ideale inteso come identificazione con una grande e clamorosa causa (e poco importa se di segno positivo o negativo), alla quale dare tutto se stesso, ma sentendosi nel contempo particella minima ma essenziale. È vero che in questo si annienta la propria pesonalità e si annega ogni possibile ambizione individuale, ma tutto questo è “compensato” dalla identificazione di sé con progetto che si iscrive – o comunque appare iscriversi – tra i grandi ed epocali eventi della storia. Una missione, insomma, per la quale val pur la pena dare tutto se stesso.
Ma c’è un altro risvolto della situazione che ci riguarda molto da vicino. Un commentatore politico inglese (Tim Stanley) ha scritto che “non è l’Islam a motivare gli occidentali che si convertono: è la noia”. Ed è su questo punto che la nostra civiltà deve guardarsi allo specchio. Le sue motivazioni, il suo fondamento, il suo modo di vita e di pensare, la sua filosofia, sono tutti sorretti dall’esaltazione dell’affermazione individuale, dal successo comunque esso sia: nello sport, nel danaro, nel potere politico, nella popolarità mediatica. Chi ha successo vince, sale sul podio della notorietà, chi non lo ha perde ed è condannato alla palude grigia a fangoso di chi non è nessuno. La nostra società non offre nessuna teoria ad esaltazione della gente comune; o comunque a consolazione della modestia, della mediocrità, di un sano e pacifico equilibrio vitale.
Su questa strada si era avviato a suo tempo il pensiero cristiano: ben più concretamente delle beatitudini evangeliche, costruendo e diffondendo dai pulpiti l’idea di una esistenza pacifica al riparo dalle tentazioni di un’ambizione aggressiva, e tutta ripiegata sull’esaltazione e la pratica dei valori della famiglia e del lavoro, che aveva come premio la serenità della vita. Ma poi, i nascenti poteri forti da un lato sfruttarono a proprio vantaggio la mitezza così esaltata, e da un altro lato scatenarono quella corsa al successo, all’affermazione individuale, alla nacessità di emergere, che caratterizzano come ineliminabili stimmate il mondo in cui viviamo. Così, la palude dei senza volto non ha scampo dal sentirsi un ricetto di falliti. Così, chi ne fa parte senza avere i mezzi per uscirne, si condanna all’inedia e all’impotenza. E così, si guarda attorno, e si aggrappa a quel che trova. Fosse anche il delirante programma dell’ISIS, nel quale – se non altro – si ha la sensazione che la propria nullità concorra a qualcosa.
Che poi… attenzione: l’ISIS ha una doppia natura. Da un lato la scellerataggine scandalosa delle decapitazioni e dei ratti; da un altro lato una propaganda mediatica di evidente efficienza, aggiornata nei mezzi tecnici e nei toni. L’idea stessa delle vittime sacrificali vestite dei colori delle vittime di Guantanamo veicola un messaggio di straordinaria potenza, che qualsiasi agenzia pubblicitaria promuoverebbe a pieni voti: oltre a ricordare anche a noi che la nostra illuminata cività, quanto a efferatezze, non ha niente da imparare da nessuno.