Troppe idee, troppe luci, troppi simbolismi. E il secondo atto è un bordello. Ma il cast? Stupendo. Specie Asmik Grigorian

MILANO, mercoledì 29 maggio ► (di Carla Maria Casanova) Successo trionfale alla Scala ieri sera per Die tote Stadt di Eric Wolfgang Korngold, opera difficile sia per gli interpreti sia per il pubblico. L’opera e il suo autore sono arrivati per la prima volta al Piermarini. E sì che l’austriaco Korngold (1897-1957) fu musicista fecondo e di precoce fama. A cinque anni suonava a quattro mani con il padre, a sette iniziò a comporre, a dieci passò sotto la guida di Zemlinsy (il grande mentore di Alma Mahler) che orchestrò un suo balletto-pantomima rappresentato a Vienna nel 1910.
A 23 anni Korngold debuttava come direttore d’orchestra dirigendo la sua opera Die tote Stadt, subito diventata un successo internazionale.
A proposito della sua musica si erano già espressi entusiasticamente Richard Strauss e Puccini (ai quali Korngold ha guardato con estrema attenzione: Salome, Elettra, Il cavaliere della rosa, Turandot vi trovano ampie citazioni… solo che le due ultime di queste opere non erano ancora state scritte. Copieranno loro?). Ebreo, cresciuto a Vienna, Korngold si stabilì negli States a causa delle leggi razziali. Naturalizzato americano, quando tornò in Europa venne trattato da estraneo. La sua cospicua produzione nel campo delle colonne sonore (vinse ben due Oscar) lo fece considerare negativamente, relegandolo nel novero dei compositori cinematografici. Deluso, Korngold tornò in America dove morì per un attacco cardiaco a 60 anni.
Questa la vita, in due parole.
Die tote stadt (la città morta) è tratta dal romanzo breve Bruges-la-morte del belga Georges Robenbach. È la storia abbastanza irritante di un inconsolabile vedovo, il quale incontra una ballerina di facili costumi, che pare la gemella dell’amata moglie defunta. Lui se ne invaghisce perdutamente e, siccome la signorina ci sa fare, ne diventa l’amante. Salvo poi (solita storia) rinfacciarle di non essere pura come la sua dolce metà. Anzi, l’idea di aver tradito la memoria della moglie lo disturba talmente che strangola la ballerina. A questo punto lui si accorge che è stato un sogno e forse (ma non è detto) esce dalla sua ossessione (per niente magnifica).
Se si fosse chiamati a parteggiare per uno dei due personaggi, credo non ci sarebbero dubbi: si sceglie lei, la più onesta, normale, coerente, sia pur debosciata. Lui è proprio un demente. Ma non si starà a cercare la sensatezza nelle opere.
L’ambientazione, però, è ben precisa: Bruges, città delle Fiandre magica, silente e misteriosa. Bruges implica la saggia segretezza dei Béguinages, dimore protette per le donne sole, la malinconia dei salici riflessi nell’acqua immota dei canali, l’aristocrazia dei cigni bianchi. Bruges è città di grande, tenebrosa Storia medioevale. Scritta da un belga, ha certi riferimenti imprescindibili. Se oramai siamo abituati a vedere l’Aida nello stargate e la Carmen negli igloo, togliere a Die tote Stadt il suo quadro naturale, sia pur per allusione, significa toglierle molto (tutto?) del suo fascino.
Non sono prevenuta. Sono, anzi, una fan di Graham Vick, regista britannico che annovero tra i primi al mondo (basterebbero quella Incoronazione di Poppea di Bologna o il Maometto II o il Guillaume Tell di Pesaro per farlo un grande). Ma questa Città morta inventata dalle scene di Stuart Nunn (ovviamente d’accordo con Vick) è pasticciata, troppe idee, troppe luci al neon, troppe allusioni incomprensibili.
Il secondo atto è un bordello.
E i bordelli si sa cosa sono, anche se qui le illazioni sono un tantino esagerate. Ma il primo e il terzo atto, con quei fondali di tende di velo che paiono la soluzione rimediata degli spettacoli di oratorio quando mancano soldi (e idee), quel palcoscenico vuoto con due mobili tipo Ikea, e, al contrario, quella parata, religioso-militare, con la mega apparizione del teschio ridente, infiorato e incoronato tipo feste popolari messicane, e il quadro vivente del campo di concentramento nazista…
Insomma, non mi è piaciuto.
Comunque, grande onore al merito a Vick per come ha fatto recitare tutti gli artisti del cast.
Saranno anche particolarmente dotati in proprio, ma qui sono bravissimi, a cominciare da Asmik Grigorian, interprete del difficilissimo ruolo di Marietta, davvero stupenda in scena e con rara tenuta vocale, a Klaus Florian Vogt (Paul) che, se nel registro alto (facciamo oltre il la?) si trova un po’ in difficoltà, ha portato a termine il suo ruolo con un aplomb impeccabile. Ottimi anche Markus Werba (Frank) e Cristina Damian (la governante).
Il direttore è l’esimio Alan Gilbert, espertissimo di quest’opera, condotto da irrefrenabile vigore. Applauditissimo.
È una partitura sognante, romantica, dove non puoi non leggere Wagner e il suo tempo, con il classico leitmotiv che persegue la caducità, il risveglio, la redenzione. Accordi dissonanti ma anche seducenti simbolismi (Debussy è alle porte). Grande musica? Direi proprio di sì.
Del successo si è detto, per tutti. Nemmeno un dissenso per la regìa, nonostante i pareri assai discordi sentiti nel foyer. Si sa, quando si arriva al dunque ci sono sempre ripensamenti. Vedi in cabina, quando si va a votare.

Milano, Teatro alla Scala. Repliche: 31 maggio, 3, 7, 10, 14,17 giugno. Infotel: 02 72003744
www.teatroallascala.org