(di Riccardo Pastorello) – Andrea Bisicchia ha scritto recentemente per “Lo Spettacoliere” (v. qui, “Non si raccontano più storie”) un breve, a mio parere interessantissimo, saggio sulle ragioni del declino della qualità linguistica del teatro e della conseguente capacità di attrarre spettatori, senza i quali, esso non avrebbe/ha/ebbe mai motivo di esistere. Oggi trionfa la cronaca, che riflette lo spezzettamento della vita, quasi che un articolo scritto così così, potesse essere posto su uno dei due piatti di una bilancia dove nel primo avessimo posto, con religioso rispetto, una qualsiasi delle edizioni della Personal History… of David Copperfield.
“Le storie…”, dice Bisicchia “non si raccontano più, trame e intrecci vengono ignorati o diventano esercizi di puro narcisismo”, non vi è più sublimazione e, aggiungo io, condividendo lo sconforto che è di molti, non vi è più metafora. Una qualità linguistica che parla di una cosa indicandone apparentemente un’altra. Perché? Bisogna pur chiederselo. “Inadeguatezza della lingua!” dice il professor Bisicchia. Ma non sarebbe meglio parlare di inadeguatezza dei cervelli – lo dico senza disprezzo alcuno – che, non trovano più neanche l’ostacolo che l’uomo aveva nell’età del libro, durante la quale il solo andare nelle grandi biblioteche costituiva sforzo gigantesco di metodo e occhio nel trovare il desiderato scritto…
Oggi siamo sommersi da quantità di dati del tutto slegati fra di loro, al punto che non possono essere digeriti che come sono: non più concetti, ma ammassi grezzi di termini nei quali non si sviluppano più concetti complessi.
Oggi non essendoci più la complessità delle trame/sottotrame/ intrecci – non esistono più neanche i personaggi e gli attori devono arrangiarsi per conto loro o soggiacere a registi che hanno a riferimento vaghe sensazioni (oggi, per esempio, va molto di moda il termine “energia”), del tutto sconnesse dall’autore al quale si sovrappongono arbitrariamente pulsioni intellettualistiche corroborate da discorsi vaghi e spesso insensati. Oppure, come dice sempre il buon professore, si supplisce alla mancanza di collaborazione fra attori e registi, con l’apporto pernicioso delle installazioni fisiche, che dopo cinque minuti non interessano più a nessuno, perché inerti.
Chiunque in questi anni abbia avuto modo di assistere a prove e recite di uno spettacolo di prosa, si può rendere conto che l’attore senza la parola spiegata, e il regista che confabula con se stesso, sono come l’allenatore di calcio che dispone male i suoi giocatori in campo perché ne umilia caratteristiche positive e propensione al ruolo, senza sfruttare quelle tipiche di ognuno. Tutto scollegato e in opposizione alle regole del palcoscenico sul quale viene stesa una coperta di dati incoerenti.
Conseguentemente, il linguaggio teatrale precipita verso la stasi di una generale entropia, senza più forza, senza più le caratteristiche che gli sono proprie, come la maggior parte di quelli che ne sono artefici. È infatti singolare, ma neanche tanto, a ben vedere, che a teatro non si contesti più alcunché. I luoghi di simili reazioni a idee sulle quali si dissente, non sono più le sale teatrali, dove, chiuso il sipario, si applaude educatamente anche la più ignobile schifezza, purché sia stravagante. Oggi prevalgono, più che gli spettacoli brutti (quelli ci sono sempre stati), gli spettacoli anemici e inutili, se non per chi li realizza.
Dunque, il teatro è morto, moribondo, o già sepolto? Nulla di tutto questo. Il mondo non finisce mai. Si trasforma. Nel nostro caso, in maniera evidente, in peggio. Il teatro è inseguito come un Cervo sfinito, dalla latrante muta dei social che ci fanno cedere – oltretutto a pagamento e in cambio di nulla – il nostro oro (i dati della nostra vita) così come i poveri indios cedevano il loro per qualche perlina ai Conquistadores.
Abbiamo trasformato una forma di arte che è di tutti ma non per tutti, in un orticello sterile, e sarà molto difficile rivitalizzarlo, anche se l’uomo è animale sociale e prima o poi qualche rito collettivo rinascerà e gli uomini si ritroveranno ad ascoltare un altro uomo che racconta una storia (ricominciando dagli antichi cantastorie? (v. foto sopra).
La politica poi… non ha saputo, come in tanti altri settori della cosa pubblica, portare questa forma di comunicazione che bene o male ha resistito per 25 secoli con la complicità della parola, sulla retta via. La sovvenzione a pioggia ha fatto il resto e come tutte le cose che vivacchiano anche il teatro dei nostri giorni fa molto male il suo lavoro di specchio dei tempi.