(di Emanuela Dini) Dimenticatevi il Richard Gere bellissimo e supersexy, andatura flessuosa, occhi azzurro cielo, sorriso disarmante, chioma ondeggiante e seducente anche se oramai candida. Perché bello, sorridente, elegante e raffinato come appare sulla locandina di “L’incredibile vita di Norman”, nel film non lo vedrete mai.
Anzi, stenterete quasi a riconoscerlo. Persino bruttino, rugoso, ingobbito, con le orecchie a sventola, spettinato e i leggendari occhi blu nascosti dietro un paio di occhiali dalle lenti spesse, si aggira per una New York invernale con un cappottino striminzito e un basco malconcio, senza fissa dimora, combinando i suoi strampalati affari seduto sui gradini dei negozi, più simile a un clochard che a un rampante consulente finanziario.
Una metamorfosi fortemente voluta sia dall’attore sia dal regista Joseph Cedar, che hanno cominciato a lavorare sul personaggio un anno prima dell’inizio delle riprese. «Trasformare Richard in Norman è stato un lavoro delicato, volevamo modificare il linguaggio del corpo e la sua percezione di sé: e così è nato il Norman rigido e impacciato, che non flirta con le donne, non è simpatico, ha le orecchie a sventola e si tiene sempre stretti auricolari e una valigetta sdrucita», ha spiegato il regista.
Ma l’aspetto dimesso di un Gere che rinuncia al suo stereotipo di maschio seducente non è l’unico elemento spiazzante di un film che si presta a innumerevoli piani di lettura e mischia eventi, intrecci, situazioni, riflessioni su etica, politica, valori, morale, parlando di amicizia e solitudine, accettazione e rifiuto, spregiudicatezza e cinismo, soldi e corruzione.
Il tutto in una New York sotto la neve, dominata dal potere economico delle grandi lobby ebraiche, con più di una consapevole strizzata d’occhi a Woody Allen.
«Nella storia di Norman mi sono rifatto all’archetipo della favola dell’ebreo cortigiano», racconta il regista, «ovvero l’ebreo che incontra un uomo di potere, gli fa un dono o un favore e riesce a entrare nelle sue grazie. Diventa il suo consigliere di fiducia, finché non suscita invidie e gelosie e, a quel punto, viene scaricato: è diventato un peso, ed è facile sbarazzarsi di un ebreo».
La trama – che si snoda come una rappresentazione teatrale, divisa in 4 atti, con tanto di siparietto e titolo – racconta infatti vari tentativi di Norman Oppenheimer, sedicente uomo d’affari, di “offrire soluzioni” e rendersi utile, per potersi fare accettare e entrare negli ambienti altolocati della finanza e della politica. Si spaccia amico dei potenti, si intrufola in ricevimenti esclusivi, molesta futuri partner d’affari mentre fanno jogging all’alba, incassa rifiuti e umiliazioni senza batter ciglio, sempre pronto a ricominciare.
Poi, gli riesce il colpo grosso e diventa l’“ebreo cortigiano”: entra nelle grazie del Primo Ministro d’Israele, e da qui inizia una girandola sempre più vorticosa di affarismi, interessi lobbystici e favori privati, clientelarismo, giochi sporchi, corruzioni, finanziamenti di dubbia provenienza, politica, potere.
Giochi attraverso cui Norman transita apparentemente impermeabile, millantando e raccontando mezze verità, ma senza mai rabbia o cattiveria. Anzi, con il gusto quasi infantile di “spararla grossa”, sapendo che è una bugia, ma finendo lui stesso per crederci. E rimanendo vittima di giochi più grandi e più cinici di lui.
A questo primo livello narrativo si aggiunge una parte più riflessiva, fatta di fitti dialoghi che squarciano il velo sul cinismo della politica – memorabile l’elogio del compromesso – e degli affari, affrontano il tema dell’amicizia e del tradimento, dell’etica e del doppiogiochismo in uno splendido duetto linguistico metà in inglese e metà in ebraico (nella versione originale, vedremo come verrà risolto in quella doppiata in italiano, n.d.r.) dove le ragioni del potere (in inglese) si scontrano con quelle della fedeltà a un’amicizia e al rispetto di sé (in ebraico).
Il tutto, raccontato con suggestive soluzioni narrative, dallo schermo diviso in due, piscina di lusso e slums; ai fermi immagine; a dissolvenze e piani incrociati; voci fuori campo su pseudo poster turistici e canti ebraici in sinagoga. E un finale nel nome del dubbio, o della redenzione.
Vale la pena di dimenticarsi del Richard Gere gigolò, per accogliere a braccia aperte il Norman ebreo cortigiano.
Un film spiazzante. A cominciare da Richard Gere: brutto, scalcinato, orecchie a sventola. Più clochard che affarista
26 Settembre 2017 by