Un Goldoni poco conosciuto, un Goldoni “nero”, così diverso, cupo e minaccioso. Semplicemente stupendo

collage donne geloseMILANO, venerdì 23 ottobre ● 
(di Paolo A. Paganini) Carlo Goldoni era uno spirito religioso? Mio Dio, come ci vengono in mente certe domande? Certo che no. Da “La vedova scaltra” a, via via, “La famiglia dell’antiquario”, “La locandiera”, “Il campiello”, “I rusteghi”, la “Trilogia” etcetera etcetera, non c’è traccia di Dio, né di quesiti o problemi religiosi. Spirito laico (non ateo), Goldoni era solo teso alla realtà, al vissuto, cioè al sentimento “religioso” della vita, con – soprattutto – le sue donne da amare, le sue Coralline, le sue Mirandoline, tra vedove, locandiere, serve amorose, Pamele, spose persiane, morbinose, finte ammalate, donne curiose, e, come no, Donne gelose, ch’è appunto la commedia vista al Piccolo Teatro Studio (tre ore con un intervallo), dove Dio è sostituito da Mammona. E, si sa, come dice la Bibbia, non si può servire Dio e Mammona, la quale è solo ricchezza mondana, oggetto di desiderio insaziabile, di culto, di dannazione. Appunto.
Ne “Le donne gelose” (1752), in dialetto veneziano (ci sono i soprattitoli in lingua, ma forse non ce ne sarebbe di bisogno), c’è infatti la dannazione: il gioco come dannazione (con la speranza di arricchirsi), soprattutto la dannazione del gioco del Lotto, con la sua cabala, con il mistero dei suoi numeri, ricavati dai segni della vita, dai sogni dell’inconscio. Oggi il Lotto è probabilmente fuori moda, ma, fino a una cinquantina di anni fa, non c’era famiglia che non giocasse entro il sabato una o più “firme” di ambi, terni e cinquine. E anche allora ci si rovinava spesso con il lotto. Qui, invece, va tutto a buon fine, tutti si arricchiscono, o con il gioco (il gioco d’azzardo, bazzica o faraone, picchetto o bassetta) o con il lotto, eppoi Giulia e Tonina, non più gelose della vedova Lugrezia, scoprono che non aveva irretito i loro uomini, Boldo e Todero, ma li aveva aiutati con prestiti (ad usura), per sanare appunto i debiti del maledetto gioco, che, dopo la vincita finale, diventa benedetto. E Donna Lugrezia, a sua volta, diventa la più stimata donna di garbo che ci sia.
Commedia poco frequentata d’un “altro” Goldoni, così diverso da Arlecchini e Locandiere, è tuttavia una delle più, sorprendenti, entusiasmanti, profonde, articolate opere dell’Avvocato veneziano. Nei suoi tre atti scorre continuamente un agro, tenebroso sapore di morte, di morte dentro, nell’anima. Anche nell’edizione allestita da De Bosio nel 1985, al Teatro Romano di Verona, il regista veneto aveva intuito che si trattava d’un Goldoni “nero” in un’incombenza cupa. Minacciosa. Compreso un falsamente consolatorio finale.
Si assiste, inoltre, a un rovesciamento della morale. Il pubblico (e Goldoni) prende le parti dei mariti, disamorati e con poco cervello, ma così simili a lui (a noi). Nelle donne, invece, c’è amore, c’è passione, c’è rabbia, pietà, e quindi gelosia. A loro andrebbe la nostra comprensione. Ma l’astuto Goldoni le costruisce avide, pettegole, fastidiose, petulanti, ottuse, ed ecco perché le nostre simpatie vanno agli uomini. Fan bene a trovare altrove le loro distrazioni. Inoltre, per tutto questo ed altro, è commedia di una modernità incredibile: c’è materia per uno studio di psicoanalisi. Goldoni ha delle intuizioni psicologiche spesso sconcertanti, da perfetto conoscitore “sperimentale” della psicologia femminile. L’affascinante Vedova Lugrezia, antesignano capitano d’industria in gonnella, è perfettamente in linea con i nostri tempi, come tante donne d’oggi, che han dovuto attendere più di due secoli e mezzo per diventare libere, femministe, spregiudicate. Come la Lugrezia goldoniana.
Con amoroso rispetto del testo, senza cedere a facili caratterizzazioni, evitando gag e siparietti di tante odiose tentazioni, il trentaquattrenne regista veneto (di Abano Terme), Giorgio Sangati, alimentatosi teatralmente all’ombra del Piccolo e di Ronconi, è riuscito in un’operazione da far paura perfino a una semplice lettura. Rigoroso, preciso, quasi maniacale, ha adottato senza indecisioni la parola goldoniana nella sua intrinseca “religiosità” poetica, nella sua strutturale potenza espressiva. Ha conseguito il doppio miracolo di valorizzare, da una parte, senza trucchi, la bellezza drammaturgica, e, dall’altra, di scatenare l’energia interiore della sua stupenda compagnia, tutta da elogiare, ma soprattutto con un quartetto di attori di straordinaria complicità: la vicentina Sandra Toffolatti (una Lugrezia precisa, perfetta, tagliente come una lama), Valentina Picello (Donna Giulia, acida e stupenda), Paolo Pierobon (Boldo, marito manesco, ma ad ogni sberla un tenero bacio d’amore), Fausto Cabra (un felice Arlecchino, o quel che ormai rimaneva in Goldoni d’un antico zanni della commedia dell’arte). E poi, via via, gli eccellenti: Marta Richeldi, Leonardo De Colle, le giovani Sara Lazzaro e Elisa Fedrizzi, Ruggero Franceschini, Federica Fabiani.
La scena non ci è piaciuta, ma l’idea è geniale: dalla pianta centrale del Teatro Studio si apre a scendere una scala d’appartamento verso un ideale piano terra, il quale si trova, come proiezione, sullo sfondo, dove si svolgono gli esterni, quasi sempre in notturna. Interessante, ma Venezia non c’è. Via, poco male.
Applausi entusiasti alla fine per tutti.

“Le donne gelose”, di Carlo Goldoni. Regia Giorgio Sangati. Al Piccolo Teatro Studio, Via Rivoli 6, Milano. Repliche fino a domenica 22 novembre.