Un grande Orsini, perfezionista d’altri tempi. E nel “Giuoco” di Pirandello si ritrova in una clinica con il cervello sconvolto

Giuoco, Orsini foto Caselli NirmalMILANO, venerdì 13 marzo  ● 
(di Andrea Bisicchia) La storia di un testo è quella delle sue messinscene, a patto che ciascuna dia un nuovo apporto esegetico. Il testo, specie se si tratta di un classico, può essere interpretato, riscritto,utilizzato per un lavoro di drammaturgia. Umberto Orsini, per “Il giuoco delle parti”, visto allo Strehler di Milano, ha scelto questa via: insieme ai suoi collaboratori, Paolo Valerio, anche regista, e Maurizio Balò, geniale scenografo, è intervenuto sulla commedia, utilizzando brani della novella “Quando si è capito il giuoco” (1913), spostando alcune scene, ma, soprattutto, ha trasformato il personaggio di Leone Gala, facendone, non più il prototipo della “divina indifferenza” di montaliana memoria, quanto un marito anziano che, ossessionato dal fallimento matrimoniale, si trova in una clinica psichiatrica per curare la ferita che gli ha sconvolto il cervello.
Orsini è andato oltre l’interpretazione filosofica di De Lullo, quella grottesca di Lavia, per addentrarsi nei meandri della psiche. In tal modo ci racconta un’altra storia, quella di un uomo che si è sposato per amore, che rivede, in una dimensione onirica, la donna amata, sempre con l’abito nuziale, facendo precedere la sua apparizione dalla musica di Mendelssohn senza, però, tralasciare la sua carnalità, quella che le ha impedito di vivere accanto a un intellettuale che si bea nel leggere Bergson e che ha preferito di stargli sempre contro, fino a desiderarne la morte. Questa seconda immagine di Silia, ben interpretata da Alvia Reale, che sta tra la strega e la fattucchiera, è anticipata da una musica popolare, quella che accompagna certe processioni del Sud, tanto che, sia Silia che Guido Venanzi, piccolo seduttore di provincia, ben reso daTotò Onnis, spesso ricorrono al dialetto.
La scena grigia di Balò, alquanto metafisica, è tripartita, grazie a piccoli movimenti che immettono nell’abitazione di lei, in quella di Leone, con studio annesso, e in quella dell’ospedale, a cui si accede attraverso un porta bianca, dello stesso colore del letto e del tavolino, dove Leone mangia le sue minestrine e, nella dimensione della memoria, l’uovo alla coque, dopo la notizia della morte di Venanzi.
Il testo di Pirandello c’è tutto, Orsini lo monta e lo rimonta, utilizzando il flashbak, con voce fori campo, quando ricorda “il fatto”, quello che resta immutabile nella mente e che si trasforma in immagini, in impulsi, in disturbi ossessivo-compulsivi che, strindberghianamente, generano l’inferno crisi del protagonista che, invano ha cercato di uscirne. Come? Attraverso l’analisi, che ormai dura da tempo, quel tempo che si era fermato al 1918, precisamente alle 17,15, come mostra il grande orologio che si intravede dietro la parete della clinica. Orsini si inventa un finale diverso, seduto sulla sedia a rotelle, attende la moglie che viene a trovarlo per mezz’ora, cosi come lui aveva fatto durante gli anni della separazione.
Certamente si tratta di uno spettacolo di regia, benché appaia evidente il lavoro sugli attori, anche su quelli con parti minori, dove si mettono in mostra Flavio Bonacci nella parte del duplice medico, quello di famiglia e quello di psichiatra, e Carlo De Ruggeri, nella duplice parte di Socrate e di infermiere.
Che dire di Orsini? Un perfezionista d’altri tempi, un grande attore che sa interiorizzare ciò che dice, che trasforma la naturalezza in una razionalità, in modo da dare alla parola dello scrittore, la sua struttura concettuale. Alla fine i lunghi applausi lo liberano dall’incubo e dalla malattia.
Si replica fino a domenica 22 marzo.
www.piccoloteatro.org