Un libro della Caruso sull’appassionato e inquieto Prati, altro che poeta romantico e languoroso

(di Piero Lotito) Che cosa ne è di Giovanni Prati, il più romantico dei romantici poeti ottocenteschi, che non poco ha fatto palpitare generazioni di studenti con la storia della infelice Edmenegarda?
Bastava sentirli, quei versi. Così dolenti e musicali, da accendere la facile paglia giovanile: «Per le vie più deserte, in doloroso / abito bruno e con un vel sugli occhi / passa la bella Edmenegarda – e al queto / lume degli astri si raccoglie in una / romita barca e con le sue memorie / vaga piangendo…». Grande, sappiamo, fu il successo di quel poema, che valse all’autore la calorosa ammissione nei principali salotti letterari di Milano, dove l’opera era stata pubblicata nel 1841 con la benedizione di Alessandro Manzoni. Una fama travolgente: tutti sapevano del tradimento di Edmenegarda e di come il destino si fosse regolato con lei. Poi, più niente. O molto poco.
Del poeta trentino (1814-1884), agli studenti del secondo Novecento e di questo primo scorcio del Duemila sono giunte vaghe notizie, quelle di solito riservate agli autori minori. Già nelle antologie degli anni ’60, Prati veniva ricordato come «scrittore di facile ma superficiale vena», protagonista ai suoi tempi di «una straordinaria fortuna che si andò man mano affievolendo, fino a spegnersi quasi del tutto» (La divina foresta, Giovanni Leotta). E la Storia della letteratura italiana di Carmelo Cappuccio parla di lui, accomunandolo ad Aleardi, come di un autore dall’«insistente lirismo», quella «malattia romantica» che tutto mescolava – patria e sentimento, buoni principii e continui sospiri – in «una poesia tutta languori e malinconie, dove abbonda il pianto e tutti i personaggi vivono in una continua tensione, con l’anima in tempesta».
Ecco, allora: che cosa ne è soprattutto oggi, tempo di feroce disincanto, dell’inquieto e appassionato trentino, spinto qua e là per l’Italia dall’«alto foco» della poesia? Nulla o quasi sapremmo di più, se non fosse uscito per i tipi di Marsilio/Centro Studi Judicaria un volume che ne raccoglie l’intero epistolario, comprendente anche un sostanzioso numero di lettere inedite.
Il volume, dal bel titolo Ti scrivo dal tavolino di Dumas (dalla lettera alla moglie Lucia scritta a Napoli, dove il poeta aveva conosciuto Alexandre Dumas), è curato da Maria Grazia Caruso, giovane italianista già autrice di saggi significativi, quali I testimoni assenti nell’opera di Matteo Collura (Sciascia, 2007), L’infinito in cerchio. La poesia di Edoardo Cacciatore (Prova d’autore, 2008), Io ghibellino esagerato. La vita di Dante in alcuni racconti del nostro Ottocento (Manni, 2010).
Un lungo e minuzioso lavoro, quello della studiosa, allieva di Giuseppe Amoroso, il maggiore conoscitore italiano del Prati: ha scandagliato per alcuni anni gli archivi e le biblioteche di tutta Italia, raccogliendo in 432 pagine 371 lettere, una corrispondenza tenuta dal poeta con 111 persone, alcune delle quali abituali interlocutori, fra cui la figlia Ersilia, la moglie Lucia Arnaudon, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, l’amore “impossibile” Erina. Gli affetti familiari, dunque, ma anche i clandestini tormenti amorosi, gli sfoghi con gli amici, il rapporto con i più importanti nomi dell’epoca (anche Cavour, e lo stesso Dumas, Garibaldi, Pio IX, Ricasoli, Umberto di Savoia…). In un vasto arco cronologico, dagli anni ’30 agli ’80, e dai luoghi più disparati d’Italia, le lettere di Prati raccontano sì un ampio ventaglio di situazioni quotidiane – le discussioni con i frequentatori del Caffè Pedrocchi di Padova, l’ansia con la quale il giovane si presenta nel 1841 a Milano «col rotolo di Edmenegarda in seno», la «rabbia canina» di Carlo Tenca, suo ostinato detrattore, le persecuzioni della polizia austriaca, l’ardente innamoramento per Erina a Torino –, ma rivelano anche il percorso segreto, intimo (proprio di un epistolario, d’altronde) di un uomo che sembra smentire il ritratto malinconico e spesso gemente cui la critica si è fin qui compiaciuta, per affermare la capacità di uno sguardo finalmente sereno sulla «favola della vita».
È il Prati degli ultimi anni, che in Psiche e Iside, scrive la Caruso, pur «con tutta la tristezza di spirito dinanzi allo spettacolo dei suoi tempi», rivela appunto «la capacità di vedere nell’impercettibile granello dell’universo circostante il dono salvifico di un incantesimo». Un Prati, insomma, per certi versi insolito. Anche sconosciuto. Un Prati che riesce perfino a sorridere (non ci avremmo mai creduto) di fronte all’impossibilità di scrivere un romanzo a lungo vagheggiato: «Avevo preparato un romanzo: l’incendio del mio povero paese e della mia casa mi distrusse anche quelle pagine scritte col più vivo sangue del mio cuore. Pazienza». Un Prati, conclude Maria Grazia Caruso nella sua introduzione, «in grado di attraversare serenamente quel gran fantasima che è il mondo, percependone in ogni angolo l’occasione di una “malia”». Nel bicentenario della nascita del poeta, Ti scrivo dal tavolino di Dumas è stato presentato nei giorni scorsi al liceo “Giovanni Prati” di Trento e a Villa di Campo, a Lomaso, nel cui convento francescano Prati nacque il 27 gennaio. A poca distanza sorge Dasindo, il luogo dove il poeta trascorse l’infanzia, e dove oggi riposano le sue ceneri.
“Ti scrivo dal tavolino di Dumas. Lettere edite e inedite di Giovanni Prati” a cura di Maria Grazia Caruso (Marsilio / Centro Studi Judicaria, 432 pagine, 40 euro).