(di Patrizia Pedrazzini) Esistono i cattivi padri? Non i cattivi mariti, compagni, amanti. Non gli uomini che ammazzano le donne. Proprio i cattivi padri, quelli che ammazzano i figli. O che, se non li ammazzano, li distruggono. Certo che esistono, le cronache degli ultimi tempi insegnano. Certo, sono uomini disturbati, malati, violenti. O forse, più che malati, annegati in un vuoto di sensibilità, di intelligenza, di amore che ne soffoca ogni possibilità, e capacità, di vivere. Cose che accadono, quando si confonde l’amore con il possesso, e il rispetto è soppiantato dalla rabbia, dall’odio, dalla furia cieca.
Intorno al tema della violenza domestica, già sviscerato nel corto “Avant que tout perdre”, il francese Xavier Legrand costruisce ora “L’affido” (“Jusqu’à la garde”), suo primo lungometraggio e sorta di thriller socio-familiare giocato intorno alle figure di Antoine, dell’ex moglie Miriam, del loro figlio undicenne Julien, per il quale la madre chiede l’affido esclusivo – forte anche del fatto che il bambino non vuole stare con il padre – ma per il quale il giudice decide invece l’affido congiunto. Di qui l’escalation di tensione, paura, minaccia costante. Con da una parte un padre che vuole a tutti i costi partecipare alla vita del ragazzo (ma non solo, vuole anche continuare a controllare l’ex moglie, della quale è gelosissimo), e dall’altra una madre che vuole tenere l’uomo il più lontano possibile, dalla propria vita e dalla propria casa. In mezzo, un bambino spaventato, che pensa a difendere più la mamma che se stesso, che nemmeno riesce a guardarlo in faccia, quel papà aggressivo, manesco ed evidentemente complessato, ma che, per paura, cede e obbedisce. (C’è anche una figlia, ma ha quasi diciott’anni, per cui esula dalle dinamiche dell’affido, e comunque anche lei ha già deciso di stare lontana dal padre.)
Fra sfuriate, litigi pesanti, bugie, ansie e angosce continue e quasi palpabili, il film va incontro all’atteso, inevitabile finale. Degno, per tensione e terrore, della celeberrima scena di “Shining”. La madre e il bambino di notte, al buio, dietro la porta di casa. Il rumore dell’ascensore, che qualcuno chiama, da giù, che lentamente risale, piano dopo piano, le cui porte si aprono sul pianerottolo. Il padre che esce, suona, chiama, urla. Solo che, al posto dell’accetta, salta fuori un fucile a pompa.
Un horror domestico, con un orco psicopatico, stalker e malvagio, che dell’orco ha anche le fattezze, con quel corpo massiccio, le mani grosse e pesanti, lo sguardo ottuso. A fronte della figura fragile e quasi patita dell’ex moglie. E del fisico minuto del bambino. Entrambi, madre e figlio, biondi. Da una parte il carnefice, dall’altra le vittime.
Un film attuale e raccontato con mano salda. Che tuttavia lascia aperti degli spiragli. Certo, Antoine non è un padre raccomandabile, però ha torto quando si arrabbia con la figlia perché marina la scuola per incontrarsi di nascosto col fidanzato? E come si può pensare che reagisca quando scopre che la moglie lo riempie di indirizzi segreti e cellulari staccati per depistarlo? E quando scoppia a piangere, sopraffatto dall’isolamento e dal senso di impotenza, sta giocando la carta dell’inganno o è sincero? Sono sempre e solo da una parte le colpe?
Un matrimonio finito. Un padre che diventa un orco. Quando l’amore si confonde col possesso. E la vita si tinge di horror
20 Giugno 2018 by