Un omaggio americano all’animazione nipponica. Un genere non più solo per bambini. Ecco un tenero gioiellino per tutti

(di Marisa Marzelli) Ormai il luogo comune dell’animazione come cinema solo per bambini non ha davvero più ragione d’essere. Sono numerosi gli autori famosi che si tuffano in questo genere, con risultati il più delle volte pregevoli.
L’esempio più recente viene dall’americano Wes Anderson (I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling, Moonrise Kingdom, Gran Budapest Hotel), regista di culto per i suoi tanti estimatori. Questo L’isola dei cani aveva aperto in concorso, nel febbraio scorso, il Festival di Berlino. Aggiudicandosi commenti lusinghieri e l’Orso d’oro per la migliore regia.
Anderson, che già aveva affrontato il cinema in stop motion (animazione con pupazzi e con la cinepresa che impressiona un fotogramma alla volta) girando nel 2009 Fantastic Mr. Fox, stavolta realizza un vero gioiellino.
Texano, classe 1969, il regista è dotato di uno stile molto personale, sempre riconoscibile, sottilmente umoristico e ha il dono di non ripetersi. Ne L’isola dei cani, da lui scritto, diretto e prodotto, anche se ha elaborato il soggetto insieme ai fidi collaboratori Roman Coppola e Jason Schwarzmann affiancati dall’attore nipponico Kunichi Nomura, realizza un’anomala fiaba ambientata nel Giappone di un futuro abbastanza prossimo (tra vent’anni) utilizzando il genere della fantascienza distopica, con tanto di voce narrante e disastri ecologici, ricreando un universo fantasioso e ricco di dettagli. Si rifà anche all’arte pittorica, al cinema e alle tradizioni del Paese asiatico, approcciati con rispetto e ammirazione. O, almeno, si rifà a ciò che della cultura giapponese è entrato nell’immaginario collettivo americano. Ma il discorso si allarga ad altre considerazioni sull’uomo e il suo migliore amico, sulla natura e anche a velati significati più in generale politici.
Nella città di Megasaki, retta con pugno di ferro dal sindaco Kobayashi, l’intera razza canina – animali domestici e randagi – colpita da una strana influenza, viene bandita e deportata su un’isola adibita a discarica, dove ci sono solo rifiuti e immondizia di cui si cibano gli animali. Sei mesi dopo, il dodicenne Atari atterra fortunosamente con un mini velivolo sull’isola, alla ricerca del suo cagnolino. Lo aiuteranno nell’impresa cinque esiliati, un tempo cani alfa ma ormai spelacchiati e demoralizzati.
Al di là di un discorso sull’amicizia e la solidarietà famigliare caro a tutto il cinema di Wes Anderson, s’intravvede in filigrana un ragionamento sulla divisione razziale e la costruzione di muri, sostituiti qui dalla deportazione tra i rifiuti. Ma il regista di Houston ha un animo giocoso, se la critica politica c’è, è dietro le quinte di un racconto tenero e a tratti malinconico, non privo di umorismo. Un racconto che è anche un omaggio a tutta l’influenza delle “anime”, il cinema d’animazione nipponico che ha invaso e in qualche modo infiltrato l’estetica occidentale e a cui Anderson dà un’anima molto personale.
Dopo il bizzarro e affascinante Grand Budapest Hotel, ma in modo del tutto diverso nell’approccio e nell’argomento, Wes Anderson si conferma fedele alla propria poetica. Questo è lo stile, bellezza!

 

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  1. […] canina, tutti i cani di Megasaki City vengono mandati in esilio in una vasta discarica (qui la […]