
“Il Trionfo del Tempo e del Disinganno” di Georg Friedrich Händel. Direttore: Diego Fasolis. Regia: Jürgen Flimm, Gudrun Hartmann. Scene: Erich Wonder. Costumi: F. von Gerkan. Coreografia: Catharina Lühr
MILANO, venerdì 29 gennaio ► (di Carla Maria Casanova) “Il Trionfo del Tempo e del Disinganno”, oratorio in due parti di Georg Friederich Händel. In Italia la musica sacra non va, quella del Sei/Settecento ancora meno, quando poi i due dati sono insieme, lascio immaginare.
Alla Scala (scelta coraggiosa) è stato quasi un trionfo. Alla fine dei due tempi di 70 minuti ciascuno, più 30 di intervallo, mi sembra che qualcuno abbia persino gridato “bis”. Insomma, un successo.
Per la prima volta, questo oratorio viene trasportato sulla scena come opera, vale a dire con allestimento scenico. L’operazione è stata compiuta dal regista Jürgen Flimm (qui ripresa da Gudrun Hartmann) nel 2003 a Zurigo, poi portata in vari teatri europei e americani. Così arriva a Milano.
Un oratorio è un oratorio e di solito non ha storia. Di solito sono rievocazioni bibliche o mistiche allegorie ma tutto lì. Anche questo, composto da Händel a 22 anni su libretto del cardinal Benedetto Pamphilj, è una discussione filosofica gestita con allegorie: la Bellezza, irretita dal Piacere, vuole conservare le sue fattezze per sempre (solita storia, vedi Faust con la giovinezza). Arrivano il Tempo e il Disinganno che con vari predicozzi convincono la Bellezza della sua caducità finché la poveretta non ne può più, abbandona il Piacere e si dedica alla penitenza, dopo aver vestito il saio monacale.
La musica è perfettamente conseguente e l’inevitabile catarsi non porta scompigli.
Lo stile barocco si manifesta con il susseguirsi di arie su arie, alcune di magistrale bellezza. L’ultima del Piacere “lascia la spina….”, cantata da Lucia Cirillo, ha creato un’atmosfera impareggiabile: l’applauso è stato da Addio del passato della Traviata. D’altronde tutti gli interpreti, che sono quattro – Martina Jankovà (Bellezza), Lucia Cirillo (Piacere), Sara Mingardo (Disinganno), Leonardo Cortellazzi (Tempo) – appartengono alla compagine di iperspecialisti di musica antica. Senza contare che l’orchestra era il complesso de I Barocchisti della Radiotelevisione svizzera, fondato e diretto da Diego Fasolis, forse il massimo riferimento al mondo per questo repertorio. Gli strumenti sono d’epoca, alcuni autentici, affiancati da strumentisti dell’orchestra scaligera intenzionati a specializzarsi nel repertorio antico. (Questo di un Complesso barrocco della Scala è anche il nuovo progetto annunciato dal sovrintendente Pereira). Dunque esecuzione magnifica, sublime. E su questo argomento ci siamo messi a posto con la coscienza.
Ma, si diceva, c’è la novità della ambientazione scenica. Flimm l’ha voluta Anni Trenta e addirittura in un luogo canonico della Paris-canaille: la celeberrima brasserie La Cupole. Il tutto è stato ricostruito dalle scene di Erich Wonder con gusto ed eleganza, stupendi costumi di Florence von Gerkan, luci ineffabili di Martin Gebhardt.
Allora, c’è qualcosa che non va?
C’è che questa scena s’impegna a creare situazioni inesistenti, a personificare concetti e dottrine di una musica assolutamente astratta, sviando persino l’ascolto. Mentre la musica di Händel è puro godimento, il libretto del cardinal Pamphilj, diciamolo, è di una infamia aberrante. Siamo all’inizio del Settecento, la Controriforma è ancora operante, va bene. La morale aveva le sue esigenze, ma oggi tale messaggio è fuorviante. Persino io, riconosciuta come bacchettona, non sopporto le macchinazioni di quei due menagramo di Tempo e Disinganno che irretiscono una povera bella ragazza fino a farle indossare un saio. Si è a livello di Isis. Strada aperta per casi come Virginia de Leyva, alias Monaca di Monza. So anch’io che è bene pensare al domani, all’anima ecc. ma che non si usi l’Inganno (altro che Disinganno). Ecco quello che, a parer mio, disturba in questo Trionfo del Tempo e del Disinganno: la frivola materializzazione social-mondana dell’oratorio. A meno che non si voglia farne un’opera comica. Alla Offenbach, per intenderci. Ma non credo sia questo l’intento.
Teatro alla Scala. Repliche 30 gennaio, 3, 5, 7, 10, 12, 13 febbraio 2016