(di Marisa Marzelli) – Se gli americani gli hanno voltato le spalle, condannandolo alla cancellazione e all’oblio in mancanza di condanne penali, travolti dal sacro fuoco che non conosce il beneficio del dubbio, l’85enne Woody Allen ha trovato rifugio artistico in Europa, che cinematograficamente l’ha sempre amato più dei suoi compatrioti. Così, esce nelle nostre sale il suo cinquantesimo titolo Rifkin’s Festival. Cosa c’è di meglio di una sua commedia dolce-amara per rimettere in moto quella macchina dei sogni che è il cinema – con un omaggio ai classici del passato – per tornare (si spera con continuità) alle proiezioni dal vivo?
Certo, il peso degli anni e della cattiva stampa domestica hanno un po’ appannato il regista di New York ma non le sue battute folgoranti, lo sguardo lucido sulle cialtronerie del mondo culturale e l’introspezione, più efficace delle sedute dallo psicoanalista. Pregi e difetti del cinema alleniano tornano puntuali in Rifkin’s Festival, ennesima riflessione su mondo reale e immaginario.
Il Festival del titolo è quello di San Sebastian, nei Paesi Baschi, dove il maturo Mort Rifkin (Wallace Shawn), già professore di cinema e ora alle prese con la scrittura del suo primo e ambizioso romanzo, si reca con la moglie Sue (Gina Gershon) addetta stampa di un giovane regista francese in ascesa, velleitario e narcisista (Louis Garrel). Mentre la moglie sembra un po’ troppo impegnata a pilotare il rampante emergente tra interviste, cocktail e ricevimenti festivalieri, tanto che Rifkin sospetta tra i due più di un semplice rapporto professionale, lui vaga per la città e, ipocondriaco com’è, finisce per conoscere una giovane dottoressa malmaritata con un pittore. Sin qui è il tradizionale incrocio di coppie delle sceneggiature alleniane. Ma Rifkin sogna spesso, e sogna i grandi film del cinema classico che continua a ritenere molto più significativi dell’attuale produzione intellettualistica e banale. Solo che nelle scene clou ricostruite in bianco e nero di film famosissimi (da Quarto potere a Fellini 8 e ½, Jules e Jim, A bout de souffle, Un uomo, una donna e altri capolavori, da Bergman a Buñuel) tra i protagonisti c’è sempre anche lui. Il miracolo lo compie il direttore della fotografia Vittorio Storaro (alla sua quarta collaborazione con Woody Allen) che riesce in pochi fotogrammi a ricostruire l’atmosfera di quelle opere. Invece, dei film di oggi proiettati al festival basco non vediamo nemmeno un’immagine, ascoltiamo solo elogi esagerati, come nel caso del presuntuoso Garrel.
Come sempre, Allen ha non solo diretto ma anche scritto Rifkin’s Festival e il livello delle battute è spesso alto, a tutto campo con le tematiche predilette: gli ebrei, Dio, la guerra, gli intellettuali, l’amore, il matrimonio, l’esistenza. Incastonato tra due sedute del protagonista dal proprio analista (alla fine non si sente l’ultima risposta del terapeuta) il racconto ha qualche momento centrale di stanca, il ritmo rallenta e perde compattezza. Ma poi recupera soprattutto nell’incontro surreale del protagonista con la Morte (bel cameo di Christoph Waltz) de Il settimo sigillo di Bergman, che si disinteressa della partita a scacchi ed elargisce consigli salutisti su come mantenersi in buona salute.
Ribadito che chi non ama Allen trova ogni suo film uguale agli altri con solo lievi variazioni e che invece chi è un suo fan è sempre incantato dalle tante intelligenti variazioni possibili, qui ci sono in effetti elementi nuovi. A partire dal fare di necessità virtù. I film che Allen ha girato fuori da New York sono sempre stati tacciati di operazione-cartolina, grande spot pubblicitario che si lega a una specifica città (Vicky, Christina, Barcelona, Midnight in Paris, To Rome with Love). Anche stavolta San Sebastian splende come località turistica da sogno. E la città ha reso omaggio al regista l’anno scorso a settembre programmando Rifkin’s Festival come titolo inaugurale. Ma alcuni di questi lavori “sponsorizzati” si sono anche rivelati tra i migliori della filmografia di Allen come nel caso di Midnight in Paris, che a livello di struttura del plot ha più di un’affinità con Rifkin’s Festival, nonostante parli di nostalgia non di grande cinema ma di grande letteratura. Comunque, nel caso di Rifkin’s Festival probabilmente non c’erano alternative: in mancanza di finanziamenti americani la produzione è solo spagnola e italiana. Quanto alla scelta dei protagonisti, pare evidente che i divi statunitensi si sono dileguati. Allen è diventato veleno per il box office.
Quando il regista, per ragioni anagrafiche, ha smesso di interpretare se stesso e le sue nevrosi, l’alter ego era quasi sempre il divo del momento. Stavolta è invece il bravo caratterista Wallace Shawn (per la sesta volta in un film di Woody Allen), già anzianotto, con la pancetta e i piedi piatti. Un’autoironica ma anche malinconica ammissione di declino da parte del regista.
Un ormai europeizzato Woody Allen, tra mondo reale e immaginario, rimette in moto la sua macchina dei sogni
7 Maggio 2021 by