(di Marisa Marzelli) L’aspetto curioso di Black Mass – L’ultimo gangster sta nel fatto che, commentandolo, si tende a fare un elenco di singoli elementi valutati positivamente per poi dare un giudizio globale per lo meno perplesso. Come in ogni film che si fregia del “tratto da una storia vera” le possibilità immaginative e le interpretazioni non in linea con la realtà dei fatti sono limitate. Bisogna attenersi, appunto, ai fatti. Nel caso della pellicola di Scott Cooper (alla terza regia dopo i due Oscar ottenuti con Crazy Heart e il successivo Il fuoco della vendetta) si raccontano ascesa, fuga e galera di Jimmy Bulger, piccolo gangster irlandese di quartiere che arriva negli anni ’70-’80 ad essere il padrone di South Boston. Ci riesce grazie ed un accordo scellerato con un amico d’infanzia (Joel Edgerton) diventato agente dell’FBI e convinto, assecondandolo, di debellare la mafia italiana. Il vero Bulger, oggi in prigione a vita, dopo la caduta ma prima di essere catturato divenne il secondo latitante più ricercato d’America (il primo era Bin Laden).
Il racconto è dunque un gangster-movie livido e spietato. Sulle orme di opere ormai leggendarie di Coppola (la serie del Padrino), De Palma (Scarface) e soprattutto Scorsese (più The Departed, per gli intrecci tra federali e malavita, che Quei bravi ragazzi o Casinò). Il regista si attiene ai fatti, con scene impeccabili, molti campo e controcampo ravvicinati nei dialoghi, una struttura che prevede spesso carrello indietro a conclusione di una sequenza, quasi a sottolineare di aver testimoniato ciò che stava succedendo ma prendendone subito le distanze. Perché resta nell’ombra la vera motivazione del rapporto tra Bulger e il suo amico federale. Il gangster fa il suo mestiere e usa l’amico, l’altro crede di tenere al guinzaglio l’informatore ma invece ne è manovrato. Perché il poliziotto agisce così: per far carriera? perché crede ancora nell’amicizia al di sopra del militare in campi avversi? perché la linea tra chi opera per o contro la legge è sottilissima e non invalicabile? Non si sa. Non è nemmeno spiegato come mai un gangster di quel livello abbia un fratello senatore mai sfiorato dal sospetto di connivenze (che invece pare ci fossero) e, in termini più drammaturgici, alcuni personaggi scompaiono dal plot senza spiegazioni.
Tutto queste rende il film ambiguo e reticente. Gioca poi un fattore cinematografico importante: il protagonista è Johnny Depp. Divo camaleonte, estroso e amatissimo, da tempo è in caduta libera, con una serie preoccupante di flop. Spesso non per cattive interpretazioni ma forse perché (è un’ipotesi) ha perduto il suo carisma. Sino ad un certo punto, qualsiasi cosa facesse sullo schermo, dal pirata rocchettaro al Cappellaio magico, il pubblico ci credeva e lo seguiva. Oggi non è più così. Il povero Depp non sa più come farsi prendere sul serio. E tenta ora la carta dell’interpretazione fortemente drammatica dove l’attore si annulla nel personaggio, invecchiato e imbruttito da un trucco pesantissimo che lo rende irriconoscibile. Gelido, imperscrutabile ma senza il fascino del divo. Però schiaccia tutti gli altri (tra cui nomi noti come Kevin Bacon, uno smorto Benedict Cumberbatch, Dakota Johnson, Peter Sarsgaard) in un racconto che vorrebbe essere corale e spaccato sociologico di un intreccio mortale tra legge e malavita. In conclusione, un film privo di vere emozioni.
Un racconto livido e spietato. Scene impeccabili. Ma il povero Depp ha perso il carisma. E la storia si affloscia
9 Ottobre 2015 by